di pavel
Ti West è il perfetto esempio di cosa succede quando il mostro capitalista di Hollywood guarda dritto negli occhi il cinema d’essai indipendente. Com’è possibile, ci si chiede, che proprio nell’epoca in cui certa tecnologia audiovisiva abbatte enormemente molti costi di produzione, i film meno riusciti sono proprio quelli che costano un sacco? È scontato che, nei tempi brevi del cinema democratizzato e delle grandi produzioni che investono solo su Grandi Successi e Grandi Nomi, realizzare un sequel diventa più una manovra aziendale che non una promessa fatta al pubblico affezionato, men che meno un’istanza artistica del suo creatore. Ma Hollywood è un killer, e forse Ti West lo ha capito. Se è difficile che un secondo capitolo superi, per qualità e successo di ricezione, il suo capostipite, figuriamoci un terzo. E curioso è che l’ultimo film della trilogia inaugurata da X: A Sexy Horror Story, MaXXXine, nonostante sia quello che ha fatturato di più al botteghino e raccolto più consenso, rimane secondo me il meno riuscito. Perché? Provo a spiegarvelo.

Dalle ricerche veloci condotte sul web, ho appurato che X: A Sexy Horror Story, realizzato lungo il corso del pandemico 2021 e distribuito nelle sale statunitensi nel marzo dell’anno successivo, ha previsto un budget di circa 1 milione di dollari, e ne ha incassati internazionalmente più o meno 15, il che vuol dire, per i produttori di A24, Successo! Nello stesso periodo della sua uscita nelle sale, Ti West ha rivelato di avere in pentola il secondo capitolo, Pearl, un prequel ai fatti narrati nel primo film. X: A Sexy Horror Story è un omaggio allo slasher indie inaugurato da Tobe Hooper con The Texas Chain Saw Massacre (1974), una convulsa e provocante commedia orrorifica che intreccia il moderno subgenre statunitense a temi ostensivi e piccanti come il nascente business della pornografia degli anni Settanta, l’identità femminile nel suo rapporto col body horror, il proibizionismo e la vecchiaia fisica, meritandogli fin da subito l’etichetta di classico moderno, oltre che il mio spassionato amore.

La produzione di Pearl è cominciata sullo stesso set di X: A Sexy Horror Story, nella meno costosa Nuova Zelanda, proprio quando si sono concluse le riprese del primo, ed è continuata lungo il corso del 2021, terminando nel marzo dell’anno successivo. Il fortunato prequel, costato sempre all’incirca un milione di dollari, si è conquistato addirittura la presentazione a Venezia ed è stato distribuito nelle sale statunitensi lo stesso settembre 2022. Scritto in collaborazione col nuovo feticcio Mia Goth, Pearl riscrive le convenzioni dell’horror contemporaneo narrando le origini di Hollywood e della sua ricezione in un’America tardovittoriana, un tropo rurale affettato dal lugubrio (sì, mio neologismo) della Prima guerra mondiale e dell’influenza spagnola del primo Novecento, rimandando alla recente pandemia da cui è reduce il suo giovane pubblico; ma è anche un tributo ai fantasmi e al terrore del cinema di Mario Bava, una seducente panoplia che racconta il miserabile fallimento del sogno americano, delle sue istanze trascendentaliste, un dipinto demenziale che trasogna le origini dello star system e traccia le istanze delusional e psycho del famigerato femminile hitchcockiano.

Raccogliendo complessivamente 10 milioni di dollari, e guadagnandosi il plauso di Martin Scorsese, se non ha eguagliato il botteghino del primo, Pearl entra a pieno diritto nel Canone della Critica. E così stregato da questa nuova eroina che rivendica il suo talento e il suo bisogno di essere vista, grazie anche all’iconico «I am a star» urlato a squarciagola da Pearl-Goth rifiutata all’audizione perché non è un’autentica blonde americana – diventato subito virale nella memoria collettiva del web – il pubblico, me compreso, è rimasto positivamente sconvolto quando Ti West ha rivelato al Toronto Film Festival, nel settembre 2022, che il terzo capitolo era entrato ufficialmente in produzione. Sequel di X: A Sexy Horror Story, ambientato a Hollywood e incentrato sulla carriera di Maxine, unica superstite dei fatti avvenuti nel Texas del ’79, il budget dispensato per la produzione del film non è stato rivelato, ma ammonterebbe a più di 8 milioni di dollari, cifra da considerarsi pure ragionevole dato che la produzione annovera nel cast star del calibro di Giancarlo Esposito e Kevin Bacon, e le riprese sono state effettuate in location non proprio demure (i famosi backlots degli Universal Studios e la grandiosa valley dell’Hollywood Sign servono da scenari di importanza cruciale).

Uscito negli Stati Uniti lo scorso giugno e distribuito internazionalmente lungo il corso di quest’estate, il film avrebbe incassato finora più di 20 milioni di dollari, superando i botteghini dei suoi precedenti. Ciò che cambia tra i primi due e il terzo, oltre all’attesa – più lunga – e il marketing – più aggressivo – è l’aspettativa. Io stesso fremevo dalla curiosità di vedere come Ti West avrebbe rivisitato il glamour di Hollywood paillettato dalle luci della ribalta dei barocchi anni Ottanta. L’unica innovazione, a mio avviso, apportata dal capitolo finale di questa trilogia è la dolceamara delusione che ha accompagnato la sua visione. Se Maxine non accetta una vita che non si merita, io a fatica accetto una storia che in sostanza campa del successo dei capitoli precedenti. Ben s’intenda, il film non è un disastro e la sua godibilità risulta dai ricchi riferimenti all’universo di Hollywood e del suo star-system; ciononostante, non aggiunge nulla all’evoluzione della sua esemplare eroina ante litteram, non rinnova le avanguardie apportate da X e Pearl e non approfondisce nessun discorso cominciato dalla saga.

Se infatti la premessa di MaXXXine è che Hollywood stessa è un killer, e la narrazione è incorniciata nella spettacolare città degli angeli dove il celeberrimo Night Stalker miete indocile le proprie vittime, è proprio l’ingresso del franchise all’interno delle grandi produzioni che suggella la propria caduta. Nutrendosi indiscriminatamente di simboli e scenari già trattati dalla serialità tipica della televisione di Ryan Murphy, assicurato da volti familiari come Elizabeth Debicki (The Crown) e Lily Collins (Emily in Paris) che danno corpo a figure bidimensionali, West serve in sostanza un thriller luccicante ma poco convincente e la preziosa cinematografia (però anche basta parlare di technicalities audiovisive nel 2024!) non redime un pasticcio che, nonostante i divertenti spargimenti di sangue e gli eccessi del brutalismo gore, non rimanda né ai temi anti-proibizionisti di X: A Sexy Horror Story né alle eziologie identitarie di Pearl. La stessa Mia Goth risulta stanca, quasi dimentica dei tratti antisociali e catartici che hanno fatto innamorare i suoi fans, così come la storia tutta pare aggrapparsi inutilmente ai punti lasciati aperti dal primo, non esplora nulla di ciò che è stato descritto nel secondo e si autocompiace con abbondanza di chiudere frettolosamente una narrazione ormai estetizzata dal rapido consenso ottenuto dal suo pubblico.

A24 ha supportato da subito il genio di un regista che viene dall’accademia, allievo di maestri dell’indie statunitense come Kelly Reichardt e Larry Fessenden, uno che ha cominciato la sua carriera con i cortometraggi e piano piano è entrato nei circuiti dell’horror a basso costo, prima con The House of the Devil (2009), altro tributo all’horror degli anni Settanta, poi con The Innkeepers (2011), film passati inosservati ma lodati persino da un critico integerrimo come Roger Ebert. Un breve tirocinio nella fortunata antologia di V/H/S lo ha poi posto all’attenzione di Jason Blum che gli ha prodotto, insieme alla Universal, il western con lo strano duo Ethan Hawke–John Travolta In a Valley of Violence (2016), ed è così che West è approdato al fortunato sodalizio con Mia Goth che ci ha portati fin qui. Se MaXXXine mi ha dolcemente deluso, non perdo le speranze nei confronti di un artista che sa fare il proprio lavoro a trecentosessanta gradi. Il regista statunitense ha affermato in più occasioni che, a seconda del successo dell’ultimo film, potrebbe pensare di scrivere un quarto capitolo. E se io apprezzo l’onestà di un Cronenberg che ha sempre rifiutato tutte le corpose offerte della spietata Hollywood perché non crede nei sequel, un’altra avventura di Maxxxine, seppure inutile, non richiesta e deludente, non me la perderei lo stesso perché, come dice Mia Goth alla fine del film quando la giornalista le chiede cosa vuole adesso che ha raggiunto il grande successo, «I never want it to end!».