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Di che cosa parliamo, quando parliamo di “Dune: parte due” di Denis Villeneuve? Abbiamo provato a mettere insieme, in questa sorta di tavola rotonda, pensieri, parole, opere, omissioni e tutto quello che ci è passato per la testa durante (e dopo) la visione del film. Prendete sul serio queste nostre parole, ma con moderazione.

"Dune: parte due" di Denis Villeneuve
“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

virginia

A me Dune non era piaciuto. Ammetto di non averlo mai più rivisto dopo il festival di Venezia dove era stato presentato, dal 2021 a oggi non mi è neanche capitato per sbaglio di imbattermi in quel film. Neanche facendo zapping in televisione. Mai. Tutti i ricordi che avevo non erano troppo negativi, ma sicuramente, non erano positivi. Ricordo che il mio cellulare era stato impacchettato e sigillato ermeticamente dagli emissari della Warner Bros., che la mia schiena non era più quella di una volta dopo quasi tre ore a sedere in Palabiennale, che Oscar Isaac stava letteralmente infestando la mia vita (dentro e fuori dallo schermo cinematografico) e che il Lido era intasato da gente che sperava di farsi una foto con Chalamet. Ma, alla fine, cosa succedeva in due ore e trentacinque minuti di Dune: parte uno? L’intera famiglia del nostro eroe Paul Atreides (Timothée Chalamet) viene sterminata, ma perchè? C’era per caso anche Jason Momoa? Perchè a Javier Bardem hanno riservato uno screen time così limitato? Perchè tutti questi riferimenti alle lettere antiche? Come faccio a ricordarmi ancora che gesserit è la terza persona singolare del perfetto di gero? Non era un film terribile, ma in alcuni (diversi, molti) punti mi sono terribilmente annoiata. Sabbia, noia, deserto, noia, qualche combattimento, noia, bellissimi effetti speciali, noia. Vabbè.

“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

Torno al cinema a vedere Dune: parte due perchè alla fine a me Denis Villeneuve non ha fatto niente di male (ma è lo stesso che ha girato Polytechnique?) e anche perchè sono grande fan di Javier Bardem. Non di Chalamet. Non della fantascienza. Non della sabbia. La durata mastodontica di questo film – ma del resto tutti i film hanno preso questa piega, come ci piace tantissimo ripetere di questi ultimi tempi – mi spaventava, non lo nego. Alla fine, però, non è stata per niente pesante (al contrario del primo film, non so se si è capito ma mi sono annoiata molto). Dune: parte due è visivamente appagante (che emozione, un deserto senza una color correction dagli esasperati toni sul giallo!) e le quasi tre ore di durata sono solo rallentate dalla banalità disarmante dei dialoghi. Perchè la resa del personaggio di Javier Bardem – che a quanto ho capito dovrebbe essere uno dei capi della popolazione di Arrakis – è così macchiettistica? Dune si basa sull’omonima serie di libri scritta da Frank Herbert e dubito fortemente che in quasi tremila pagine di opera letteraria i dialoghi siano sempre gli stessi per tutti i personaggi. Se si tratti di una volontaria caratterizzazione dei personaggi volta dagli sceneggiatori (lo stesso Villeneuve e Jon Spaihts), questo non posso dirlo, ma fateci caso al prossimo rewatch: ognuno ripete la stessa identica cosa fino allo sfinimento. David Ehrlich, a tal proposito, ha definito «agonizzante» la visione del film; non sono d’accordo e non sono così estrema come è stato lui nel dare una definizione a Dune, ma capisco benissimo il suo punto di vista.

"Dune: parte due" di Denis Villeneuve
“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

Stando a quanto Villeneuve ha affermato di recente, Zendaya, Timothée Chalamet, Austin Butler e Florence Pugh sarebbero il futuro del cinema, giovani adulti che «portano molta passione in quello che fanno». Lungi da me smentirlo – mica ho mai diretto Chalamet nella vita – ma qualcuno ha mai davvero creduto, anche solo per un secondo, anche solo per una frazione di minuto, che nei panni di Paul Atreides l’attore più promettente della sua generazione, il nostro Elio Perlman in Call me by your name, sia credibile? Io no. E ho avuto grosse difficoltà anche con Zendaya. Non so come spiegarlo meglio di così ma entrambi mi provocano le stesse sensazioni di quel paio di Converse infilate casualmente in un fotogramma di Maria Antonietta di Sofia Coppola. Sono completamente anacronistici. Austin Butler, d’altra parte, per quanto mi riguarda potrebbe benissimo essere Feyd-Rautha nella vita reale e, oltre a essere protagonista della sequenza migliore della pellicola (sì, sto parlando del bianco e nero e se vogliamo essere specifici, degli infrarossi) è quello che brilla più di tutti in questo all-star cast voluto da Villeneuve. Già lo scorso anno Butler was (ingiustamente) robbed, speriamo vivamente non succeda più.

marco

Mi sono approcciato a Dune: Part Two in maniera abbastanza scettica, consapevole che il primo capitolo non mi fosse piaciuto affatto, che il review bombing in positivo per film-evento di questo tipo è ormai un fenomeno conclamato (vedasi i casi degli Spider-Man, sia live action che cartone, o di Oppenheimer) e che non condivido affatto l’idea di cinema che ha Villeneuve e di quanto centrali e totalizzanti dovrebbero essere queste visioni in sala. In realtà, mentirei se dicessi che la prima ora sia stata un’esperienza negativa: ho apprezzato molto l’uso dei silenzi e le scene del deserto. Essendo stato nel Sahara qualche mese fa per la prima volta credo che Villeneuve abbia reso molto bene l’idea di calma e di meraviglia che ho provato dal vero, e sebbene ci siano tanti altri film che danno la stessa impressione in maniera più contemplativa (Zabriskie Point di Antonioni, Fata Morgana di Herzog) lo ritengo uno dei maggiori pregi del film. In questo senso, è da attenzionare la costruzione del rapporto tra Paul e Chani, già iniziato a fine primo capitolo: sebbene l’acting nei momenti di intimità nella prima parte risulti genuino, la scrittura non sempre brillante dei dialoghi rende il rapporto un po’ macchinoso e forzato, e questo è un difetto che il film si porterà dietro per tutta la durata.

"Dune: parte due" di Denis Villeneuve
“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

Un altro elemento di rottura rispetto al primo capitolo è la maggior attenzione alla parte sociologica: sebbene niente faccia gridare al miracolo, l’attenzione che viene data al fondamentalismo, alla natura geografica del culto e alle differenti correnti in una stessa religione è comunque degna di nota. Inoltre, il rapporto tra Paul, la madre e le loro origini potrebbe essere sviluppato in maniera interessante nel terzo capitolo, sebbene non mi spingerei a tirare in ballo la psicanalisi per le due uccisioni nel finale. Tuttavia, già nella prima parte si notano dei problemi piuttosto lampanti, il primo dei quali è relativo alla scrittura dei personaggi e dei dialoghi. Ho trovato sia i Fremen che gli Harkonnen (soprattutto) abbastanza macchiettistici, così come lo sviluppo del rapporto tra Paul e Chani: non avendo letto il libro (e non essendo intenzionato a farlo) non ho dei termini di paragone, però mi è sembrato tutto molto basilare e poco sviluppato. A questo problema, si aggiunge la caratterizzazione dei Fremen: sebbene sia palese l’influenza della cultura araba nei vestiti e nelle tradizioni, è ridicolo che i personaggi principali siano interpretati da due caucasici e un’afroamericana e questo, a mio avviso, nasconde (neanche fin troppo bene) l’islamofobia ancora presente ad Hollywood, per cui l’Oriente è visto solo come una fascinazione glamour e niente più. Il fatto che non sia presente neanche un attore mediorientale o nordafricano nel cast di una produzione così ricca ed internazionale è un sintomo abbastanza lampante di questo fenomeno.

“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

A questo proposito, è un po’ fastidiso il trattamento di alcuni attori: al netto del cameo di pochi secondi di Anya Taylor-Joy (che dea) funzionale al terzo capitolo, le presenze di Florence Pugh e Lea Seydoux, insieme alle prove di Bardem, Bautista e Skarsgård passano completamente in secondo piano rispetto agli effetti speciali o all’idea di cinema immersivo che ha Villeneuve. Un po’ uno spreco, insomma. Inoltre, il turn (per rubare un termine al wrestling) di Paul Atreides risulta un po’ banale e telefonato, specialmente perché avviene per cause esterne (lo stesso discorso piò essere esteso alla madre) piuttosto che per un convincimento personale; da come è stato scritta la parte finale, sicuramente meno distesa rispetto all’inizio, il terzo capitolo su lui come Messiah dovrà per forza fare attenzione ai messaggi di egemonia e oppressione di popoli, considerando il mondo in cui stiamo vivendo e, in modo particolare, i mesi precedenti all’uscita. In sostanza, sebbene ci siano alcuni elementi apprezzabili, Dune Part Two rivela i soliti problemi di queste produzioni mastodontiche con fin troppe pretese autoriali e ipocrisie. Soggettivamente, l’esperienza per me non è stata nemmeno così immersiva, a differenza di film con molto meno budget ma decisamente più anima: è con questi ultimi che si salva il cinema, checché ne dicano gli executive o dei registi con manie di onnipotenza.

giulia

Per parlare di Dune, non dobbiamo mai dimenticarci che – nonostante i cambiamenti apportati dal nostro Denis Villeneuve – stiamo pur sempre guardando un adattamento cinematografico di un libro di fantascienza pubblicato nel 1965. Io questo libro, anche se con un po’ di fatica, l’ho letto attentamente. Il motivo principale che mi ha spinto ad avvicinarmi al franchise di Dune fu l’annuncio ufficiale della realizzazione di un nuovo adattamento. Dico “nuovo” perché in realtà c’è già stato un pazzo, negli anni ’80, che aveva tentato nell’impresa. Sto parlando di David Lynch. Bene, a tutti quelli che dicono che Dune: Prima Parte è un film tecnico e noioso, consiglierei vivamente la visione del Dune di Lynch, per aiutarli a comprendere che Villeneuve, per mettere le basi della storia e portare avanti un prodotto ben pensato e funzionante, non avrebbe potuto fare altrimenti. Io sono grande fan della fantascienza, leggo romanzi che appartengono al genere da quando sono bambina e non ho problemi a dire che il lavoro di Frank Herbert si è rivelato una lettura estremamente faticosa. Come faticosa è stata anche la visione del film di Lynch, che forte del grande budget a lui dato, ha palesemente letto il libro e deciso di inserire nel film solo le parti che gli andava di mettere. Il risultato? Un film visivamente unico nel suo genere ma dove, vi giuro, non si capisce niente

"Dune: parte due" di Denis Villeneuve
“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

Quindi per me l’ordine è stato questo: annuncio della produzione di un nuovo film di Dune, visione del Dune di Lynch, totale incomprensione della storia, lettura del romanzo di Herbert, per rimediare. Curiosando nel web, grazie a un vecchio articolo del The Guardian, ho scoperto che negli anni ’50 Herbert era uno scrittore freelance appassionato di ecologia, ritrovatosi a lavorare per un programma del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. L’obbiettivo di tale programma era l’inserimento di zolle d’erba di blocco nelle sabbie mobili dell’Oregon, le cui dune spinte dai venti dell’est «stavano seppellendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino». Logicamente, Herbert noleggiò un piccolo aereo per andare a studiare la situazione dall’alto, dando così vita al suo interesse (ossessione?) per queste dune di sabbia, ma soprattutto per l’idea che sia possibile cambiare un intero ecosistema con l’inserimento di un elemento esterno. Non riporterò qua tutti i vari passaggi che hanno poi portato alla stesura del romanzo che conosciamo adesso – se siete interessati potete trovarli nell’articolo che ho qua sopra citato –, dato che quello che mi premeva far capire è solo l’estrema dedizione che è stata presente nella creazione del mondo di Dune fin dal suo principio. 

“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

Arrivando al nostro Dune: Parte Due, Villeneuve, proprio come aveva fatto Herbert, si prende a carico il lavoro realizzando una restituzione così dedicata anche al più piccolo dei dettagli, che solo al pensiero mi tornano subito gli stessi brividi che avevo in sala. Performance degne di nota, che riescono tutte a brillare nonostante la talvolta disparata relazione fra il breve screen time di un attore (ndr. Austin Butler) rispetto alla colossale durata totale della pellicola, sono solo la punta di quello che diventerà, secondo la mia umile opinione – ma anche quella di molti altri —, un nuovo cult. Tutto quello che vi sembrerà poco chiaro, per esempio, negli atteggiamenti di Paul Atreides (Timothée Chalamet), ha in realtà una sua precisa funzione ai fini della storia. Capisco che, rispetto ad altre grandi produzioni di oggi, questa non sia affatto effortless, ma credo anche che qui risieda la sua grande forza. Niente nella scrittura del film è lasciato al caso, se pur presenti scelte che magari potevano essere evitabili, come quella di provare a rendere in tutti i modi il personaggio di Javier Bardem nota comica del film, nonostante siano riusciti a farmi sorridere. Astenendomi dallo scrivere altre mille parole su quanto questo film sia per me davvero bello, quello che più mi piace di Dune: Parte Due è che, volendo mettere da parte tutto quello detto fino ad adesso, il film riesce a conquistare anche chi non è fan del genere o della storia, rendendo comunque la visione una vera e propria esperienza, grazie alla fotografia, alla colonna sonora, a tutto il resto. Ve lo possono dimostrare i miei genitori, che ho (quasi) obbligato ad andare al cinema, e che ne sono usciti entrambi dicendo: «ora capisco perché ci hai detto di farlo».

“Dune: parte due” di Denis Villeneuve (Credits: Jack Davison)

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