recensione a cura di alberto frosini
In che modo il cinema d’archivio può continuare a dialogare con il presente? Il found footage, di per sé, già proietta lo spettatore in una dimensione nostalgica e passata, lontana dall’hic et nunc che si sperimenta durante la visione in sala di un film. I registi Ana Lungu e Kamal Aljafari, attraverso immagini di repertorio, hanno cercato di recuperare la storia dei loro rispettivi paesi, dimostrando che il presente non è altro che conseguenza di una serie di eventi passati in successione – trascorsi, sì, ma non del tutto esauriti.
Il cinema d’archivio rappresenta un punto di vista su memorie collettive e personali, spesso occultate dalle narrazioni ufficiali. Due film, Triton di Ana Lungu e A Fidai Film di Kamal Aljafari, esplorano in modo complementare l’importanza della memoria visiva e del recupero di immagini storiche. Entrambi utilizzano materiali d’archivio per sfidare la storia confrontandosi con essa, restituendo così dignità e voce a ricordi spesso persi nel tempo o, addirittura, volutamente cancellati. Pur adottando stili formalmente diversi, le due opere si concentrano su come la memoria possa diventare un atto di resistenza.
Triton di Ana Lungu ci trasporta nella Romania del comunismo “monarchico” di Ceaușescu, raccontata attraverso il punto di vista di uomini che, attraverso l’utilizzo di foto e video, celebrano le donne della loro vita. Queste immagini sfidano la narrativa ufficiale del regime, offrendo uno sguardo intimo su una realtà nascosta. Lungu si interroga non solo sul processo con cui questi uomini creino ricordi, ma anche sulle loro ossessioni, soffermandosi in particolare su Alexandru Popovici, un geniale musicista rumeno con alle spalle una vita complicata. Infatti la sua storia è la più dettagliata e viene documentata attraverso le sue lettere, filmati e foto che trattano di temi fra i più disparati. In questo modo l’opera non è solo una riflessione dettagliata sulla memoria di singoli individui, ma un’indagine personale sulla percezione e sull’appropriazione delle immagini in un contesto di repressione. L’utilizzo di filmati d’archivio in Triton riflette il desiderio di raccontare una storia alternativa a quella ufficiale, più intima e celata, dove anche il videomaking amatoriale diventa uno strumento di resistenza silenziosa contro il controllo della dittatura. Queste diapositive segrete permettono di esplorare la routine e, allo stesso tempo, la complessità di un popolo che vive sotto un regime autoritario, rivelando così come le riprese più da dilettanti possano preservare frammenti di realtà non censurata e sfuggire al potere dominante.
In A Fidai Film, Kamal Aljafari affronta il tema della memoria collettiva palestinese. Il film è una risposta alla sottrazione dell’archivio storico palestinese da parte dell’esercito israeliano durante l’invasione di Beirut nel 1982. Aljafari non si limita a raccontare una perdita, ma tenta di ricostruire un contro-archivio e una contro-narrativa attraverso i mezzi cinematografici, cercando così restituire ai palestinesi la loro identità e storia visiva. Il regista propone una riflessione su come il possesso della memoria sia cruciale nella costruzione dell’identità di un popolo e su come possa essere nocivo l’appropriazione e la manipolazione coloniale delle immagini. Lontano dall’essere un film tradizionale, A Fidai Film è un esperimento di found footage che, attraverso un montaggio vibrante che alterna filmati a colori e in bianco e nero, ricostruisce una memoria visiva rubata, se non addirittura deturpata. L’autore si spinge anche verso la sperimentazione, intervenendo sugli stessi filmati e sovrapponendo ad alcune figure un artefatto di colore rosso, quasi fluorescente. Questa tonalità nasconde i profili delle persone, delle navi, e persino del mare e del sole, generando fin dall’inizio nello spettatore una forte sensazione di inquietudine.
Triton e Ai Fidai Film dimostrano come l’archivio possa essere usato non solo per raccontare il passato, ma anche per costruire nuove prospettive sul presente e sul futuro. Se Lungu utilizza uno stile classico per esplorare il rapporto tra memoria privata e storia collettiva, Aljafari adotta un approccio sperimentale per sfidare le narrazioni coloniali. Entrambi, tuttavia, condividono l’idea che la memoria visiva sia un atto di resistenza e una forma di potere.