approfondimento a cura di emma marinoni
Nel libro Experiments in imagining otherwise, la scrittrice femminista Lola Olufemi cerca di proporre tramite una sperimentazione formale e contenutistica un nuovo modo di concepire il tempo e di vivere l’esistenza. Olufemi muove dalla classica metafora che vede il tempo come circolare (a simboleggiare un ciclo di perenne ripetizione) trasformandola in una spirale, in cui il passato, il presente e il futuro coincidono:
My aim is to produce a map that is nothing like a map at all but rather a record of traces that make connections between the past (present/future) – the present (future/past) – and the future (past/present). I want to demonstrate how these temporal regimes encroach on one another, so to tell the story of the past means telling the story of the present, which is already where the future resides. Maybe time is a many-pronged spiral: a thick and firm approach and retreat, steady and unrelenting. The place where memory and repetition are disguised and reconfigured.
Il metodo adottato da Olufemi è principalmente “above all, feeling!”, attraverso il quale diventa possibile immaginare un otherwise, ovvero una realtà alternativa in cui le dimensioni temporali coincidono grazie ad un legame basato sulle sensazioni e emozioni. Relazionarsi con l’archivio permette la produzione di una realtà nuova, che non è né passato né presente ma entrambi e al tempo stesso qualcos’altro. Le dimensioni temporali si sovrappongono, generando un’empatia formale e sentimentale tra l’autore originario del filmato e chi lo guarda nel presente, re-immaginandolo.
autism plays itself (2024) di janet harbord
Nel 1957, lo psichiatra Elwyn James Anthony realizza alcuni filmati a scopo diagnostico nel reparto infantile del Maudsley Hospital di Londra. Nel 2023, tre persone autistiche li osservano e commentano producendo una traccia voice over: la combinazione di questi due elementi è Autism plays itself, videosaggio di Janet Harbord. Il film non consiste solo di una semplice presentazione del materiale originale da parte della regista agli occhi del presente, anzi: il montaggio si muove in parallelo ai suoi protagonisti, seguendo il comportamento dei bambini e i loro gesti talvolta ripetitivi – focalizzando l’attenzione dello spettatore su di essi. Tipico dell’autismo è infatti il fenomeno dello stimming, ovvero l’effettuare una serie di movimenti ripetitivi per gestire il proprio rapporto con gli stimoli esterni. Tramite il montaggio, che porta questo tipo di comportamenti in primo piano, anche il film fa stimming visivamente.
Il voice over del presente non è una mera risposta allo stimolo visivo, ma anch’esso influenza il montaggio e talvolta addirittura ferma la narrazione. In un certo senso, l’agency completamente assente dei bambini/pazienti presenti sullo schermo è ribaltata e recuperata dalle persone che condividono la stessa diagnosi nel presente. Questo ribaltamento modifica la funzione e il destinatario dei filmati: se infatti inizialmente erano stati concepiti per l’occhio clinico, in questo caso sono sottoposti ad uno sguardo di riconoscimento ed empatia. Nonostante i comportamenti dei bambini vengano descritti dal voice-over anche dettagliatamente, non si tratta mai di una descrizione diagnostica, ma più di un’accettazione e comprensione dei loro atteggiamenti.
las novias del sur (2024) di elena lópez riera
La commistione di due momenti temporali nel mondo femminista è spesso avvenuta tramite l’elaborazione del concetto di genealogia. I legami tra donne, in particolare quelli familiari, sono stati fondamentali per ricostruire una storia collettiva del femminile. Il mediometraggio di Elena López Riera muove da un presupposto simile, analizzando lo sdoppiamento generato dal guardare le foto del matrimonio della propria madre. Il film combina foto d’archivio di matrimoni e momenti familiari con interviste a donne ormai anziane che parlano delle loro vite sentimentali e sessuali, delle loro relazioni finite, riuscite o fallite.
Il confronto necessario con la propria genealogia/eredità (definita herencía da López Riera) è il tema principale anche del lungometraggio d’esordio della regista, El agua (2022): in un paesino del sud-est della Spagna l’adolescente Ana, che vive con la madre e la nonna, è tormentata da una credenza che lega le donne della sua famiglia alla prossima inondazione. In Las novias del sur, López Riera utilizza invece l’immagine d’archivio come punto di partenza per riflettere su questo confronto necessario: la regista descrive le immagini come parte di una memoria collettiva quasi innata e implicita, legata ai ruoli tipici della femminilità. Le interviste con le protagoniste delle fotografie diventano un modo per riflettere anche formalmente sulle modalità di confronto: se López Riera è osservatrice esterna delle foto, nelle interviste è una voce senza corpo fuori campo. In entrambi i casi, non ha un corpo o una forma. Il suo essere una presenza estranea e anomala è rimarcato anche dalla scelta della regista di autodefinirsi come punto di interruzione della figura genealogica: come una non-moglie, una non-madre, e di conseguenza una persona per cui è impossibile ritrovarsi nelle rappresentazioni di questa genealogia. L’unica collocazione possibile trovata dalla regista è nei margini di tutte queste fotografie, dove vengono ritratte le amiche della sposa, le non-mogli e non-protagoniste.
city of poets (2024) di sara rajaei
City of poets si svolge in una realtà utopica – e quindi, quasi per definizione, al di fuori di una dimensione temporale specifica. Attraverso immagini e filmati d’archivio privati, Sara Rajaei costruisce una città fittizia, in cui tutte le vie principali sono state intitolate a poeti. In questa società, la poesia ha un’importanza fondamentale: il voice over descrive una comunità perennemente in festa, che recita poesie al posto degli indirizzi. Con il passare del tempo, la città si allarga sempre di più, e i nomi dei poeti non bastano per tutte le vie – si passa quindi a nomi di scrittori, intellettuali, scienziati, atleti, montagne, fiori… L’ingrandirsi della città è principalmente motivato dallo scatenarsi di una guerra e dalla necessità di accogliere una grande quantità di rifugiati. La guerra diventa successivamente anche un’imposizione semantica: al suo termine, tutte le vie vengono intitolate a martiri di guerra, e i cittadini perdono il senso dell’orientamento.
La città, da utopia fantastica e favolistica, si cala sempre di più in una dimensione reale. I toni diventano più cupi, la lingua della narrazione cambia: passiamo da concentrarci su un’intera città alla storia di una singola casa in una singola via. Rajaei ha definito City of Poets come un tentativo di rappresentare a livello formale la mutevolezza e molteplicità della storia orale: la narrazione da collettiva diventa personale e viceversa. La dinamica familiare descritta è infatti tutt’altro che esterna alla comunità: è un piccolo spazio di resistenza che lentamente viene sempre più sopraffatto dalle imposizioni del governo della città dei poeti, che costruisce un ambiente in cui alla fine le condizioni necessarie per lo sviluppo della poesia non esistono più. La regista ha scelto di ambientare il corto in una dimensione utopica e atemporale in modo da permettere agli spettatori di proiettarci le proprie esperienze personali: tuttavia, il paradossale trasformarsi della città dei poeti da società incentrata sulla poesia a una in cui la poesia diventa impossibile assume un significato ulteriore grazie alla sua atemporalità. City of poets parla di un passato utopico ma anche di un presente in crisi e di un futuro incerto: l’immagine d’archivio diventa quindi rappresentazione contemporanea di diverse dimensioni temporali, varcando i limiti dello spazio-tempo.