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di pavel

Dopo Little Women, Gerwig continua la sua saga gerwighiana sancita da Lady Bird. Coming of Age Indie, Dramma di Costume Letterario e ora Viaggio dell’Eroe Postmoderno. Se non si fosse trovata questa fatica, Greta avrebbe potuto tranquillamente firmare la regia di Everything Everywhere All At Once. A questo giro, vittima sacrificale del filtro postfemminista del genio di Sacramento è Barbie, in tutte le sue salse. Dopo un suggestivo omaggio introduttivo al Kubrick di 2001: A Space Odissey, in cui capiamo che è solamente esistito un tempo a.B. e un mondo d.B. (avanti Barbie, dopo Barbie), la gnosi immaginifica di Gerwig e Baumbach ci introduce, attraverso un establishing shot non dissimile da quello con cui si apre White Noise, ad una Barbieland idilliaca dove le virtù ideali della Repubblica platoniana e le atmosfere degli eden pastorali rinascimentali si concretizzano in paradigma arcadico, e il paradigma, pressoché perfetto, non produce giudizio, non segnala conflitto, non invita a nessun tipo di speculazione.

“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

La pace regna sovrana a Barbieland, tutte le Barbies sono felici di essere se stesse, e tutti i Kens felici di funzionare rispetto alle loro Barbies. Tutto perfetto, fino a quando un glitch nella coscienza di Margot Robbie segnala un malfunzionamento: la stereotypical Barbie per eccellenza inizia ad avere “recurring thoughts of death”. Mattel non ha ancora prodotto Barbie Psichiatria e allora l’urgenza di medicalizzazione di una bambola conscia della propria obsolescenza è deputata a Barbie Kate McKinnon, guru delle Barbies ostracizzate ed allontanate dalla società: “always on the splits”, McKinnon comanda a Robbie di recarsi nel mondo reale, per capire la fonte della falla nel sistema. Qualcosa nel rapporto tra Barbie e la sua padrona umana dev’essersi rotto, a quanto capiamo, e il resto dell’intreccio si esperisce come una quête dell’eroina per rimettere le cose a posto, accompagnata da un laccato Ken, interpretato da un ingessato Ryan Gosling. Tra danze pirotecniche, music halls, ammutinamenti, battaglie ed inseguimenti matrixiani, il film è servito come un bel polpettone che si può mandare giù tranquillamente, anche se si ha qualche problema nel masticarlo.

“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

La narrazione di Gerwig non vuole aggiungere nulla di sensazionale alla tradizione, e il tanto atteso-e- sponsorizzato-dai-colossi-della-Industria-attuale Barbie non è un film senza precedenti: le dinamiche sono quelle dei giocattoli e dei loro padroni in Toy Story, la trama non è lontana da quella di Pleasantville, l’atmosfera ricorda lo straniante The Truman Show, e la regia presenta toni satirico grotteschi alla The Stepford Wives, mentre la fotografia vuole dare un’allure distopizzante come nel recente Dont Worry Darling. Così il femminile si dissocia da sé, ricerca la propria identità (ma quale?) e il finale vuole che la sincerità individuale trionfi su qualsiasi verità universale. Forse la maggior rivoluzione è l’opera di promozione fatta al film, la più aggressiva di cui sia mai stato testimone. Post-ideologicamente parlando, Barbie non racconta niente più e niente meno di ciò che una serata a base di marijuana a Greenwich Village con gli amici della coppia Gerwig-Baumbach possa aver premesso: non è rivoluzionario, e sebbene nella sua scrittura semini insights comici e osservazioni interessanti, non condanna esplicitamente nulla, non ammonisce nessuno. La lezione appare così descritta: tutti alla fine sono vittime di una entità superiore, il Patriarcato, e questo Patriarcato è il prodotto di un Canone, una Tradizione. Le vittime più esemplari prendono le sembianze di annoiati amministratori delegati di una multinazionale e maiali bavosi che fanno cat-calling sulle piste di Venice Beach.

"Barbie" di Greta Gerwig
“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Forse la collaborazione, anche fin troppo esplicitata, con Mattel avrà posto dei limiti sul taglio dissidente che la regista avrebbe potuto dare alla pellicola. O forse la visio della stessa Greta, dopotutto, si è fermata al postfemminismo degli anni Duemila, e non vuole più mettersi in discussione. Okay, non è cinema autoriale, però… La lectio più interessante, oltre alla chicca di un finale dove Barbie confessa di non amare Ken ma di voler esercitare la propria capacità di agency nel mondo reale, è una critica un po’ pastello a come il femminismo più di tendenza escluda il maschile: il maschile dei Ken, in Barbieland, si costruisce come specchio del femminile delle Barbies, e dunque e i Kens, costruitisi all’ombra delle loro belles, si sentono poco rappresentati e frustrati nella negazione della loro identità, così da giustificare il loro colpo di Stato e la loro breve dittatura dei Colonnelli.

"Barbie" di Greta Gerwig
“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

La prospettiva di Gerwig è infatti unica, singolare, forse poco coerente, non abbastanza indignata, ma difatti mai pretenziosa, e alla fine si risolve sempre nelle proprie contraddizioni, così che il messaggio che sembra trasparire è: cambiare tutto per non cambiare niente. Dare, sì, la possibilità a tutte le Barbies di essere le Barbies che sognano di essere, e come si è costruito il paradigma femminista nel mondo reale, applicare la stessa storia al Barbieworld: integrare piano piano i Kens all’interno di una serie di politiche di inclusione e autodeterminazione, così che la costruzione del Maschile passi attraverso le fasi dell’Esclusione prima, dell’Omologazione poi. Per chi si aspettava una rilettura transfemminista della bambola più famosa al mondo, mi dispiace deludervi: quando l’ordine viene ristabilito, e tutte le Barbies sono nuovamente felici di essere Barbies e i Kens desiderosi di partecipare alla costruzione del loro ruolo nella Res Publica, il desiderio di Margot Robbie è quello di diventare umana, così da potersi sottoporre alla sua prima visita ginecologica.

"Barbie" di Greta Gerwig
“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Barbie è un film simpatico, divertente, ha un carisma tutto particolare come la personalità della sua regista, ma non è dissidente, non scomoda nessuno. È acuto e sagace sì, ma solo nello stile: la scrittura va davvero a braccetto con quella di White Noise, e non mi stupirebbe scoprire che Greta e Noah li hanno scritti nello stesso momento, perché, alla fine, entrambi i lavori sono due diversi lavaggi di una stessa storia, della stessa solfa omerica con cui il cinema più pop incassa milioni di dollari: inizio, introduzione del protagonista, presentazione del conflitto, condanna filo-comunista su semplicistiche analisi etnografiche, altissima posta in gioco, rischio dell’apocalisse, ma alla fine la parabola dell’amore vince sempre (soprattutto quella dell’amore per se stessi), agnizione finale molto commovente, fine. Il dispiegamento degli eventi, intimamente banale, non è redento da un universo altro, dove allo spettatore non è permessa nemmeno la sospensione del giudizio, né il grottesco kafkiano di una Barbie che si auto percepisce aiuta il processo di identificazione col pubblico. Il set design, delizioso, è più presente a se stesso di quanto non lo sia Ryan Gosling, il quale, nonostante i copiosi numeri di cabaret, finisce per scomparire dietro ad una Margot Robbie in stato di grazia, transustanziazione della Blonde Ambition per eccellenza, Madonna dagherrotipica che risponde di qualsiasi nuance emotiva richiesta dalla situazione.

"Barbie" di Greta Gerwig
“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

La falsa gnosi è pericolosa, e se io alla fine ho apprezzato la visione di un marketing di giustificazione audio-visiva dell’asimbolia etica di un colosso dell’industria statunitense come Mattel, un film del genere lo farei vedere a mia figlia solo dopo averle fatto leggere una Cavarero, o Audre Lorde, che giustamente diceva: “gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone”. Cara Greta, grazie per il tuo miele di umiltà, ora sì che possiamo deglutire meglio lo zeitgeist capitalista. Uscito il 20 luglio, il film ha incassato ben 2 milioni di euro in un solo giorno nei cinema italiani: migliore apertura al box office del 2023. Se oltre ai biglietti per il cinema aggiungessimo i ricavi dalla profusione di cappelli, borracce, magliette e vestiti targati Barbie venduti da tutti i negozi di fast-fashion per l’occasione, il netto raggiungerebbe cifre esorbitanti. Scopriamo così che Gerwig, oltre ad essere un’ottima regista, è anche un’intelligente broker finanziaria, da far impallidire qualsiasi lupo di Wall Street. A quando il biopic su Elisabetta Franchi?

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