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di giuseppe

Durante l’UnArchive – Found Footage Fest 2023 – prima edizione della rassegna curata da Alina Marazzi e Marco Bertozzi sul riuso creativo delle immagini d’archivio –, nella terza delle cinque giornate festivaliere, svoltesi dal 3 a al 7 maggio, si è tenuta una masterclass d’eccezione: il regista rumeno Radu Jude, vincitore nel 2021 dell’Orso d’oro alla Berlinale con Sesso sfortunato o follie porno, ha incontrato il pubblico composto principalmente da giornalisti e studenti nella sede del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. 

Radu Jude Found Footage UnArchive
L’intervento di Radu Jude all’UnArchive Found Footage Fest 2023

In dialogo con i curatori, visto anche il contesto in cui si inscriveva l’evento, ospite di una scuola di cinema e nella cornice di una manifestazione dedicata al – così come è stato definito nel corso della conversazione – second hand film, Jude non è stato semplicemente invitato a ripercorrere cronologicamente la sua carriera, ma, stimolato su argomenti specifici, ha toccato vari temi, dal rapporto con la Storia, a problemi di rappresentazione cinematografica, fino alla riflessione politica sul suo paese d’origine, e ha parlato lungamente del suo lavoro, ormai abituale, con gli archivi e le loro immagini, presentando – a corredo di quanto detto – due cortometraggi, The Marshal’s Two Executions (2018) e Plastic Semiotic (2021). Ha, infine, anche svelato, del tutto inaspettatamente, il soggetto del suo prossimo film. 

“Plastic Semiotic” di Radu Jude (Credits: IMDb)

Si riporta di seguito il resoconto di questa masterclass, tradotto in italiano ed editato nella misura in cui ogni risposta non perdesse di organicità né sviasse dalla sua originale direzione.

Alina Marazzi: Guardando i tuoi film si intuisce che hai una grande passione per la Storia e so che hai anche una grande passione per i libri di Carlo Ginzburg.

Radu Jude: Sì, certo mi interessa di tutto, ma per la Storia, che menzionavi, credo esistano due tipi di interesse principali. Uno, che non mi interessa per niente, è un certo tipo di prospettiva “almanacchistica” – e mi riferisco a quelle persone che possono disinvoltamente parlare del Rinascimento, dell’antica Roma o di tutto questo genere di cose; l’altro, che invece mi interessa perché provengo da un paese che per molti versi ha una storia travaglia, riguarda le zone oscure della Storia, che si parli del mio paese o in generale dell’Europa. Non farei mai un film storico che volesse dimostrare quanto fosse interessante il passato – e oggi c’è un’esplosione di film simili, americani e non solo, e alcuni sono anche molto buoni – come per esempio Il gladiatore. Per quanto riguarda Carlo Ginzburg, per me è un grande modello perché, insieme a un altro gruppo di storici, ha inventato l’idea della microstoria. Penso che ci sia una connessione col cinema, che la maggior delle volte lavora su storie piccole e approfondisce situazioni specifiche. Per me c’è molto da imparare da qualcuno come lui, in particolar modo per la trasmissione dell’insegnamento di saper osservare i dettagli. Sono sempre i dettagli a essere importanti: studiare questo tipo di Storia insegna ai filmmaker a porvi attenzione. 

“Plastic Semiotic” di Radu Jude (Credits: IMDb)

AM: Ieri sera abbiamo proiettato un tuo cortometraggio, The Potemkinists, che fa ovviamente riferimento al capolavoro di Ėjzenštejn. Nel film, due personaggi, conversando, mettono in discussione la verità raccontata da questo monumento della storia del cinema. Il tuo campo d’azione è veramente molto vasto: attraverso l’ironia e queste commedie surreali e grottesche riesci a fornire una serie di interrogativi molto profondi riguardo alla rappresentazione del passato, usando altri film e materiali televisivi. Quando arriva l’idea della ricerca d’archivio nei tuoi film? È sempre un punto di partenza oppure no?

“Plastic Semiotic” di Radu Jude (Credits: IMDb)

RJ: Allora, non saprei: io sono un regista e che faccia buoni film o meno non devo giudicarlo io, ma quello che seguo è un modello particolare, per questo mi interessa molto un autore come Rossellini e il suo approccio. Di base, Rossellini non aveva uno stile preciso, sia che si parli del suo periodo neorealista, che dei suoi film per la televisione o dei documentari. Soprattutto, in questo secondo gruppo, per anni, come molti, ho creduto che molti film non fossero molto belli, ma quando li ho visti di nuovo recentemente, ho pensato che mi piacevano proprio perché non erano belli. In qualche modo, a Rossellini non interessava così tanto del cinema e penso che abbia trovato un equilibrio: se ami troppo il cinema il tuo lavoro può sembrare molto freddo (“stiff”), se non ti piace per nulla allora chiaramente non lo fai. Allora, la cosa interessante di Rossellini è che a lui piaceva il cinema, ma lo odiava allo stesso tempo. Ho letto, in un libro su di lui, che nel montare i suoi film li rivedeva a velocità doppia in moviola, perché detestava riguardare il suo girato. Con le mie modeste qualità, io faccio la stessa cosa. Non ho un vero stile e per molti anni ho sofferto per questa situazione.

“The Potemkinists” di Radu Jude (Credits: IMDb)

Come tutti sappiamo, viviamo in un mondo in cui gli artisti, i filmmaker, devono possedere un proprio stile, una propria voce per emergere. Ad esempio, se si vede un film di Antonioni o di Hong Sang-soo lo si riconosce immediatamente. Io non ho questa caratteristica, ma dopo un po’ ho pensato che non fosse una brutta cosa, perché negli anni mi sono sentito molto più libero di fare quello che volevo senza pensare che qualcosa non appartenesse al mio stile. Certo, se qualcosa ti interessa scegli il modo che ritieni migliore per approcciare l’argomento. Così, per tornare alla tua domanda, a un certo punto, quasi per necessità, mi sono rivolto all’archivio. Come dicevo, sono interessato alle forme non ai soggetti. Un argomento mi interessa solo se ho in mente una forma che lo riguarda: a volte ricevo delle proposte di sceneggiatura o incontro persone che mi dicono “fai un film su questa cosa” o “scrivi una storia su questo argomento o questo personaggio”, ma se non ho un’idea della forma non faccio il film, perché per me il cinema è un modo di pensare e questo modo di pensare ha una configurazione, ha una forma, e questa per me è la struttura del film. La struttura è una cosa molto importante per me, perché aspiro all’unicità: le mie strutture, di film in film, non si ripetono.

“The Potemkinists” di Radu Jude (Credits: IMDb)

È una questione di rappresentazione: quando inizio un progetto collegato a un fatto storico, mi capita ovviamente di imbattermi in materiali d’archivio e così inizio a raccogliere libri, immagini, film, canzoni, suoni e qualunque cosa riesca a trovare. Poi a poco a poco provo a utilizzarli e a incorporarli dentro la struttura del film. Credo che sia qualcosa che avviene anche nella storia dell’arte moderna: già più di cento anni fa, qualcuno ha cercato di chiarire bene questo concetto e di darne una definizione precisa. Uno storico dell’arte belga, Thierry de Duve, ha scritto un grande libro intitolato Kant after Duchamp dove prova a parlare di cosa rimane delle idee estetiche di Kant e delle sue categorie dopo che Duchamp usa un orinatoio per produrre un’opera d’arte. Il libro parla proprio di come ci sia bisogno di riconsiderare che cosa siano l’arte e la bellezza, dopo il fenomeno dell’objet trouvès, o delle found images nel nostro caso. Nonostante il fatto che quest’incorporamento delle immagini d’archivio nel film esista fin dall’inizio della storia del cinema, credo che il cinema sia quasi sempre stato un passo indietro rispetto alle altre arti, rispetto alla letteratura per esempio: nello stesso anno in cui Joyce scriveva l’Ulisse, se si guarda alla produzione cinematografica del periodo, da un punto di vista narrativo, siamo un passo indietro. È la stessa cosa con i found objects: Duchamp utilizzava questa tecnica cento anni fa, ma le persone ancora oggi chiedono “che razza di regista sei se non crei le tue immagini e monti semplicemente quelle già esistenti?”. 

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“The Potemkinists” di Radu Jude (Credits: IMDb)

Marco Bertozzi: So che tu insegni in una scuola di cinema ogni tanto, e per questo ti chiedo se hai o non hai un metodo e se ci sono alcuni punti precisi che vuoi insegnare ai tuoi studenti?

RJ: Sì, effettivamente è qualcosa che faccio da un po’ di tempo, ma ancora non so bene come. Credo che il problema delle scuole di cinema sia legato al fatto che il cinema dovrebbe avere una sorta di approccio incontrollato (“a wild aspect”), un po’ come la musica punk, nel modo in cui viene pensato e praticato. Così, in un certo senso le scuole di cinema sono una contraddizione: come fare una scuola di punk! Questo per me è sempre un problema. Forse c’è anche qualcosa di psicanalitico, visto che non sono mai riuscito a essere ammesso in nessuna scuola di cinema! Comunque, la lezione principale che cerco di trasmettere ai miei studenti è quella di agire contro. Contro cosa? Contro di me, in primo luogo, poi contro la scuola e contro tutto il resto. Un’altra cosa che cerco di insegnare è la riflessione su cosa sia veramente un filmmaker. Viviamo in un mondo ossessionato dall’originalità e dalla creatività ed è qualcosa di schiacciante da un certo punto di vista: tutti voglio essere creativi anche se non si riesce davvero a capire cosa significhi essere creativi nel cinema.

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“The Happiest Girl in the World” di Radu Jude (Credits: IMDb)

La mia risposta è che essere creativi nel cinema, nella maggior parte dei casi, se non in tutti, non significa creare – cosa poi? Con una videocamera è molto semplice: schiacci un pulsante e lei fa il lavoro per te. Per me, invece, è molto importante unire cose diverse tramite collegamenti. È questo secondo me il mestiere del filmmaker: connetti la videocamera con qualcosa di fronte a lei, non importa se sia documentario o fiction. Connetti i testi con gli attori, con i costumi, con le location, con le luci, con la musica. L’originalità e la creatività provengono da cosa connetti e come: così per connettere queste cose le devi conoscere. Devi avere grande esperienza della vita e cercare di capire come funzionano la società e il mondo. Allo stesso tempo c’è bisogno di avere una cultura che non sia solo legata al cinema, ma anche alla letteratura, alla matematica, alla fisica, all’architettura, alla Storia. Puoi decidere cosa fare come filmmaker solo in accordo a quello che sai: se non sai niente, ad esempio, del luogo in cui stai girando, della sua storia e della sua struttura, come fai a giudicare quali scelte fare? Puoi solo affidarti all’intuizione, e va benissimo: ma se non hai una grande intuitività – e io non sono una persona intuitiva – allora devi saperne qualcosa.

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“The Happiest Girl in the World” di Radu Jude (Credits: IMDb)

Così per fare delle scelte devi sapere molto. E questa penso fosse anche l’idea di Rossellini e del Centro Sperimentale. Io ho insegnato in Romania e anche a San Sebastian per un po’: se si comparano le scuole di cinema alle scuole di musica o di pittura ci si rende conto che i violinisti suonano i violini ogni giorno, i pittori dipingono ogni giorno, gli scultori scolpiscono ogni giorno, invece, uno studente di cinema gira qualcosa ogni sei mesi e credo che sia qualcosa di molto irritante. Gli studenti diventano molto preoccupati e ansiosi: sono portati a pensare di dover fare un bel film ad ogni costo visto che hanno aspettato sei mesi l’occasione. Ma con la tecnologia che abbiamo a disposizione – tutti hanno un telefono, un computer o una videocamera – cosa impedisce di fare un film al giorno? Ok, forse non un film al giorno, ma uno alla settimana? Ok, forse non uno alla settimana ma uno ogni due? Andy Warhol, un’altra grande ispirazione per me – e ritengo che alcuni suoi film siano assolutamente sottovalutati –, produceva un film ogni giorno negli anni ’60. Credo che per me vedere i film di Warhol – vedere qualcuno che girava ogni giorno, senza aspettare come invece si fa nell’industria del cinema odierna – sia stato un atto liberatorio. Oggi bisogna aspettare i soldi: i filmmaker europei hanno bisogno dei fondi delle coproduzioni e sono costretti ad aspettare di avere un grosso budget per iniziare la lavorazione. Mi è successo qualcosa di simile per il mio primo lungometraggio, The Happiest Girl in the World.

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“The Happiest Girl in the World” di Radu Jude (Credits: IMDb)

AM: Da come descrivi la tua attitudine è evidente che non hai paura di fare dei film imperfetti e di diverse durate. I due film che presentiamo oggi sono due cortometraggi. Vuoi introdurci il primo?

RJ: Penso che The Marshal’s Two Executions sia un film interessante. Vi do un po’ di contesto: il maresciallo Antonescu, a cui si fa riferimento nel titolo, era per la Romania quello che Mussolini era per l’Italia. Nel 1946 fu condannato a morte per essere stato complice di un genocidio e aver commesso vari crimini di guerra. L’esecuzione fu registrata da un grande cineoperatore, che sarebbe divenuto il più importante cameraman degli anni ’50. Successivamente, sotto il regime di Ceaușescu la figura del maresciallo Antonescu fu per larga parte demonizzata, ma lo stesso Ceaușescu adorava quel personaggio – allo stesso modo in cui, ad esempio, Stalin stimava Hitler e viceversa. Dopo la rivoluzione, il filmmaker ufficiale di Ceaușescu, Sergiu Nicolaescu, svelatosi favorevole alla destra nazionalista, girò un’agiografia del maresciallo Antonescu e mise in scena l’esecuzione seguendo attentamente il documento degli anni ’40. Mentre ero impegnato su un altro progetto, mi venne in mente di intrecciare col montaggio le due riprese così da poter rendere evidente il tentativo di creazione del mito che veniva fatto traendo informazioni dalla realtà – il documentario dell’esecuzione –, e come l’uso della musica, del colore e della recitazione rendesse tutto così diverso. Per me, quindi, era interessante capire come funziona il documentario e come funziona la fiction – e in questo caso si trattava di fiction di propaganda – e come si possa rompere il giocattolo per mostrare il suo meccanismo.

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“The Marshal’s Two Executions” di Radu Jude (Credits: IMDb)

AM: In Italia tutti hanno ben presenti le immagini di Mussolini e Claretta Petacci a Piazzale Loreto, per questo volevo chiederti: questo documento dell’esecuzione di Antonescu è un film d’archivio conosciuto dal pubblico rumeno oppure tu lo hai riportato alla luce?

RJ: Ho un aneddoto interessante per rispondere a questa domanda. Quando fu girato il breve film dell’esecuzione, l’Unione Sovietica controllava il sistema giudiziario rumeno e richiese la produzione di questo filmato che fu spedito a Mosca subito dopo. A quanto ne so, il film quindi non era presente negli archivi rumeni, ma esisteva solo la copia di Mosca. Dopo la rivoluzione del 1989, che segnò un avvicendamento al potere, la persona che ottenne le più alte cariche aveva uno stretto legame con il vecchio apparato comunista. Prima della guerra, la Romania era una monarchia, il cui re cadde per mano dei sovietici. Il re fu esiliato e dopo la fine del regime iniziò a cercare di rientrare in patria. Nel frattempo, il culto del maresciallo Antonescu cresceva: veniva adesso proposto come se fosse una figura eroica e un patriota. A un certo punto, il filmato dell’esecuzione – credo fosse il 1992 – fu mostrato in televisione per dimostrare quanto fosse stata brutale la morte di questo grande eroe. Una copia del film apparve quindi dalla Russia perché qualcuno volle usarla e modificarne il significato proponendola in un contesto molto diverso. Successivamente Nicolaescu vi si ispirò per il suo film agiografico del 1994, Oglinda (o The Mirror, come il film di Tarkovskij!).

“The Marshal’s Two Executions” di Radu Jude (Credits: IMDb)

AM: È interessante vedere come queste immagini vengono sfruttate in maniera manipolatoria e propagandistica.

RJ: Ci sono due cose da imparare da questo tipo di riuso di immagini d’archivio: la prima, di cui parlavo anche prima, riguarda l’attenzione ai dettagli. In un archivio, che sia pubblico, privato o persino YouTube, puoi fare ricerca. Il lavoro del filmmaker, quando arriva alle operazioni di montaggio, è simile a quello del detective: si inizia a cercare tracce, segni nel film, e ogni cosa inizia a parlare. Riguardare più e più volte le stesse cose porta a scovare nelle immagini dei dettagli di cui non ci si era accorti alla prime visioni. Questo tipo di cose, incluse nel film, possono significare qualcosa oppure no: è una domanda difficile che si pone anche Umberto Eco nel suo libro I limiti dell’interpretazione, cercando di stabilire quali siano i confini oltre cui inizia la sovrainterpretazione. Ogni tanto si leggono critici che portano avanti delle interpretazioni deliranti sui film: ma quand’è che sappiamo che si è superato il limite? Ovviamente, quello che dicevo prima vale anche per questo argomento: più ne sai riguardo al contesto, più sei capace di capire tutte le implicazioni. La capacità di vedere è capacità di connettere i punti attraverso la conoscenza. La seconda cosa da imparare, molto più complessa, poi riguarda il mondo digitale in cui viviamo oggi. Noi filmmaker finora abbiamo sempre prodotto immagini connesse con il reale: un’immagine è sempre una traccia, un’ombra, della realtà. Ma oggi, con la diffusione del digitale e l’introduzione delle AI, credo davvero che stiamo andando incontro a un nuovo modello, capace di aprire una crisi nel mondo nel cinema e in quello in generale delle immagini. Quando apro Facebook non posso sapere se una fotografia sia vera oppure se sia generate da un’intelligenza artificiale. I primi spot pubblicitari interamente prodotti da un’AI si possono già trovare su YouTube e per me è incredibile che un programma possa fare qualcosa del genere!

“Plastic Semiotic” di Radu Jude

AM: Lavorando con gli archivi e con il found footage sei costretto, come dicevi, a rivedere più volte le stesse immagini, anche molto brevi, e a focalizzarti sui dettagli. Anche il film di enrico ghezzi che abbiamo presentato al Festival, Gli ultimi giorni dell’umanità, è in qualche modo un film che suggerisce di imparare a guardare davvero le immagini e ad aprire gli occhi. È un po’ quello che fai anche tu attraverso l’uso di diversi generi e diversi stili, impiegando la messinscena, il documentario, l’archivio, uniti a un registro comico e dissacrante che tenta di svelare il dispositivo narrativo e produttivo messo in atto. Insomma, come se volessi interrogarti su quali siano i livelli di realtà che mostri.

RJ: Sì certo, assolutamente. Credo che questo sia quasi obbligatorio in qualunque film e ancora di più quando si lavora su materiali preesistenti. Sono d’accordo e non ho molto da dire in più, ma forse una cosa interessante da aggiungere alla discussione è la questione dei diritti. Per utilizzare le immagini d’archivio bisogna firmare molti documenti ed è necessario avere i diritti per mostrare qualsiasi cosa. Sempre di più, col passare del tempo, sto iniziando a usare immagini di cui non ho i diritti: così ho molta più libertà. Se avessi voluto fare i due film che presentate oggi seguendo tutte le regole e ottenendo tutti i diritti da parte di tutti gli interessati, non ci sarei mai riuscito. 

“Memories from the eastern front” di Radu Jude (Credits: Berlinale)

AM: Volevo farti una domanda sui tuoi collaboratori e sulla produzione dei tuoi film. Tu sei anche coproduttore: durante il processo creativo, qual è il tuo rapporto con i tuoi montatori?

RJ: È una bella domanda però non ho una bella risposta. Un filmmaker si trova a lavorare con diversi collaboratori – il direttore della fotografia, il montatore, i produttori – e i punti di vista di cui deve tenere di conto sono molti. I miei collaboratori spesso cambiano e la maggior parte delle volte sono in buoni rapporti con loro, ma… c’è un grande “ma” che va affrontato riguardo questa questione. Vi parlo dal mio ruolo di regista: ho scoperto che in qualunque occasione un filmmaker tenti di fare qualcosa di relativamente nuovo, spesso i collaboratori non fanno altro che trattenerlo e scoraggiarlo. Lo fanno in diversi modi: o dicono di non sapere fare ciò che gli chiedi o obbiettano che le luci, il girato o un taglio fatti in un certo modo non vanno bene. Quando si fa qualcosa di nuovo si accetta il rischio, ci si avventura nell’ignoto e non si sa con certezza se quello che si sta facendo è valido o no: poi ti trovi di fronte a venti persone che cercano di fermarti e allora è impossibile andare avanti. Vi faccio un esempio: recentemente, ho completato un altro found footage film che si intitola Memories from the Eastern Front (2022), composto interamente dal montaggio di una serie di fotografie della guerra.

“Memories from the eastern front” di Radu Jude (Credits: Berlinale)

All’inizio non sapevo bene come montare questo materiale: poi ho pensato “perché creare un montaggio diverso da quello del loro ordine cronologico?”. Allora il mio collaboratore al montaggio mi ha chiesto: “Ma così dov’è la creazione? Dov’è la regia?”. Ma è ancora più interessante agire così: a volte fare un passo indietro, significa andare un passo avanti. Successivamente si è posto il problema della colonna sonora. Ho provato alcune voice-over, un po’ di musica, dei rumori e alla fine mi sono chiesto: “Ma se invece lo lasciassi muto, eliminando la colonna sonora?”. Tutte le altre persone impegnate nella produzione si sono ribellate: “No! Non puoi fare un film muto con le fotografie! Sei matto! C’è bisogno del suono!”. Non solo nessuno mi ha incoraggiato, ma nessuno ha neppure davvero riflettuto se la mia fosse una buona idea o no. Più provi a fare qualcosa contro il canone e contro la tradizione, più emergono i problemi. Credo che tutto questo sia anche legato al fatto di come viene percepito il cinema: le persone pensano che un film sia bello o un attore sia bravo solo se si seguono quelle regole non scritte molto tradizionali, proprie di ogni professione. Se le infrangi, le persone si spaventano molto e i collaboratori si chiedono cosa penseranno gli altri professionisti del settore di loro. Senza contare, che, per esempio, girare, come mi è capitato, senza luci artificiali di sicuro non ti farà vincere premi nazionali per la fotografia e in molti non lo accettano. Lo stesso discorso vale per gli attori. La verità è che io credo davvero nel cinema amatoriale (“I really believe in amateur filmmaking”) e nell’arte amatoriale in generale. La mia volontà, dopo ormai alcuni anni di professionismo, è quella di tornare a essere un amatore! Si può riguadagnare un po’ di innocenza, dopo averla persa, solo con una grande cultura. 

“Memories from the eastern front” di Radu Jude (Credits: Berlinale)

AM: Prima citavi Umberto Eco: il secondo corto che ci porti oggi si intitola Plastic Semiotic e forse ha qualcosa a che fare con lui. Come hai lavorato con gli “attori” di questo film?

RJ: Ho passato molti anni intorno ai giocattoli per via dei miei figli, quindi, a un certo punto mi sono chiesto: perché non fare un film di giocattoli? Per me l’elemento fondamentale del cinema è la mise-en-scène, in senso ampio: come viene organizzato lo spazio, cosa c’è davanti e cosa dietro alla macchina da presa, come viene montato tutto questo. Tutte queste cose sono molto più importanti per me rispetto allo storytelling, ad esempio, perché credo che il cinema abbia poco a che fare con le storie. Come disse una volta Jean Renoir in un’intervista, per risolvere la crisi del cinema sarebbe necessario che ogni casa di produzione del mondo costringesse tutti i registi a girare un solo soggetto l’anno, così da avere in un anno un solo western, in un altro un solo melodramma e così via. Si vedrebbero molto meglio tutte le differenze fra film e film. Ma casi del genere esistono già: basta confrontare Il Vangelo secondo Matteo, il capolavoro di Pasolini, con il kitsch del Gesù di Nazareth diretto da Zeffirelli. Abbiamo la stessa storia, la vita di Cristo, ma i due film sono completamente diversi. Passando molto tempo intorno ai giocattoli, mi venne in mente che a guardarli attentamente si poteva iniziare a intravedere che tipo di storia, di ideologia, di idea politica, economica ed estetica si portavano dietro. Così, con il semplice gesto cinematografico della mise-en-scène, ho pensato che tutto questo potesse emergere: abbiamo usato sempre delle lenti molto grandi per fotografare questi giocattoli molto piccoli, giocando con la messinscena. Le storie degli oggetti e la loro ideologia si rivelavano spontaneamente. 

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Radu Jude insieme al gruppo organizzativo dell’UnArchive Found Footage Fest 2023

Durante il Q&A, successivo alle proiezioni, Jude, rispondendo a una domanda dal pubblico, ha infine svelato il soggetto del suo prossimo film.

RJ: […] Sto preparando il mio nuovo script per il film che farò su Dracula il prossimo anno. Colgo sempre l’opportunità di iniziare a lavorare su un nuovo progetto: avevo scherzosamente suggerito a un produttore che, visto che sono rumeno, avrei dovuto assolutamente fare un film su Dracula, ma lui mi aveva preso sul serio e si era dimostrato interessato a quest’idea. Così mi sono detto: perché no?

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