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a cura di virginia maciel da rocha

Manco a dirlo: I love this shit.

Daisy Jones & The Six è una serie prodotta da Hulu, o forse Prime Video, sinceramente non ho mai capito le dinamiche e non mi sono neanche troppo informata, come forse avrete capito – fatto sta, in Italia la trovate su Prime. Narra le vicende di una fittizia rock band attiva negli anni Settanta, che da Pittsburgh si sposta in California (sì, appunto, dov’è precisamente Pittsburgh?) per scalare verso il successo. Ovviamente hanno successo e ovviamente la musica non è nemmeno il centro della storia – nonostante una colonna sonora niente male, anzi! e che conta, alla scrittura, anche la presenza di Phoebe Bridgers. O meglio, la musica fa da sfondo e diventa lo strumento prediletto dai due protagonisti, Billy Dunne (Sam Claflin) e Daisy Jones (Riley Keough) per confessare sentimenti che forse non troppo apertamente sentono l’uno nei confronti dell’altro (ammesso che lo spettatore sia così stupido da non aver capito dai primi cinque minuti come sarebbe andata a finire, beninteso).

Daisy Jones & The Six
«Daisy Jones & The Six» (Credits: Amazon Prime Video)

Chi ha seguito la lore dietro alle vicende dei Fleetwood Mac non faticherà nel trovare una grande quantità di punti di contatto tra la storia del piccolo (?) schermo, o in qualsiasi modo si possa definire una serie approdata direttamente su piattaforma streaming, e la grande parabola della band anglo-americana. Io, che ascolto i Fleetwood Mac da quando avevo tredici anni dopo averli scoperti con Rhiannon contenuta in una stagione di American Horror Story, comunque non avevo idea del grande dramma che si celasse dietro al gruppo e se non altro posso ringraziare Daisy Jones per avermi fatto entrare in questo mondo molto da telenovela, pieno di litigi e di ammende. Insomma, sono arrivata tardi alla festa, ma va bene così: del resto continuo da mesi ad avere Instagram intasato dal famigerato video di Silver Springs, in cui Stevie Nicks sembra… arrabbiarsi, quantomeno, con l’ex marito, durante l’esecuzione della canzone.

«Daisy Jones & The Six» (Credits: Amazon Prime Video)

Daisy Jones and The Six è una serie che pullula di difetti: dal punto di vista stilistico, narrativo e, nello specifico, nella scrittura dei personaggi. Daisy Jones stessa, la protagonista e colei che dà il nome prima che alla serie all’omonimo romanzo scritto da Taylor Jenkins Reid, è un personaggio incredibilmente piatto e monodimensionale; segue il classico stereotipo della donna libera e indipendente, ma al tempo stesso ferita e broken, come piace tanto ripetere a qualsiasi personaggio dentro questo prodotto audiovisivo e quindi… fa abuso di sostanze stupefacenti?! Di base tutti i suoi comportamenti sembrano suggerire questo e negli sporadici riferimenti su come viene trattata, il tutto si risolve con un paio di frasi fatte, una roba del tipo «non voglio essere una musa, io sono qualcuno!» oppure, meglio ancora se vogliamo, con un salvatore bianco, bello, alto, muscoloso, etero e ugualmente broken (come lei): il frontman e collega Billy Dunne. Insomma, va bene che nessuno si salva da solo, ma neanche è sempre l’uomo a dover assolvere a questo compito, dai.

«Daisy Jones & The Six» (Credits: Amazon Prime Video)

Ho visto la serie, per la prima volta aspettando settimane, nel momento in cui Prime Video rilasciava un episodio ogni sette giorni – sì, parlo con cognizione di causa, fresca di un rewatch e nel momento in cui questo articolo è stato scritto, mi trovo a metà del romanzo. Inspiegabilmente non mi ricordavo granché delle dinamiche interne e per fortuna, tra le altre cose, avevo rimosso anche l’episodio interamente ambientato in Grecia, dove la musica di sottofondo si compone di pezzi di Mina e Françoise Hardy. Va bene che il Mediterraneo, agli occhi di uno statunitense, apparirà tutto uguale, ma insomma. Non voglio passare come qualcuno che parla solo male di questa serie, anche perchè se l’ho rivista in tre giorni, un motivo ci sarà; l’intento di questo sfogo è più cercare di capire quali siano le ragioni remote e recondite per cui questo prodotto audiovisivo continua ad attrarmi così tanto. Non c’è niente di rivoluzionario e tantomeno ribelle, nei comportamenti dei personaggi: l’abuso di alcol e droga è chiaramente solo un pretesto per conferire una certa allure bohémien e la riprova della moralità borghese in cui tutti sono immersi fino al collo è che, alla fine della giornata, si torna sempre dove si è stati bene = a casa dalla moglie.

Daisy Jones & The Six
«Daisy Jones & The Six» (Credits: Amazon Prime Video)

A tal proposito, il personaggio di Camila (interpretato da Camila Morrone), moglie di Billy Dunne, risulta emblematico: ma com’è possibile che questa donna sia rimasta sempre più o meno fedele a un marito che neanche si è degnato di visitarla al momento del parto in ospedale, che mente in continuazione e che, infine, la scredita pure, a favore della profonda e broken (di nuovo, appunto) connessione con la poetessa maledetta Daisy Jones?! Le sfuriate di Camilla al marito assumono un tono più lagnoso che, effettivamente, furioso e se, da una parte Billy Dunne può permettersi tutte le scappate che vuole, da un livello incredibilmente superficiale di connessione con le varie groupies a uno intimamente stretto con Daisy Jones, a Camilla non è ovviamente concesso niente di tutto questo. Anzi, peggio ancora: nel momento in cui Billy viene a sapere di una notte trascorsa da Camilla con il bassista della band Eddie (Josh Whitehouse), prende a pugni in faccia il collega. Ma certamente.

Note polemiche a parte, mi sento di dover sollevare una questione. Daisy Jones & The Six è stata o non è stata una sensation? Anche perchè, di tutte le mie conoscenze, solo tre persone l’hanno vista (un saluto ad Anna, Ami e Agne) e non capisco come sia successo, con tutto l’appeal che può, effettivamente, fare presa su un largo pubblico. Sicuramente deve averla vista Taylor Swift – e questo mi porta a pensare che negli Stati Uniti abbia sbancato – dato che per il periodo immediatamente successivo alla conclusione della messa in onda, ha cantato alcune canzoni con abiti che richiamavano quelli di Daisy Jones (che a sua volta richiamano Stevie Nicks, che a sua volta richiamano Loie Fuller e qui interrompo la catena, altrimenti finisco per ripetere quello che dicono alcuni uomini etero in Fight Club). Allego uno dei peggiori edit che ho trovato con spirito scientifico su Twitter, che ora si chiama X ma io sono una nostalgica del bel tempo che fu – chi cerca, trova, e quel social è pieno di questi parallelismi.

Daisy Jones & The Six
«DDaisy Jones & The Six» (Credits: Amazon Prime Video)

Mi sono ampiamente interrogata su che cosa mi portasse a sognare di ritrovarmi in mezzo a questi personaggi, con tutto il kitsch annesso – anzi, di fatto, per una settimana a diritto ho continuato a sognare la California e gli anni Settanta. Forse, alla base, ci stanno le stesse motivazioni che, dentro un contesto sociale in cui viene fuori il nome di Quentin Tarantino e, di conseguenza, mi viene chiesto quale sia il suo film preferito, istantaneamente rispondo con C’era una volta a… Hollywood. Questa caricatura ipersaturata di quelli che dovevano essere stati gli anni Settanta nella West Coast – va bene la psichedelia, ma forse nella vita reale, i colori non erano effettivamente questi? Chissà – mi affascina terribilmente, come se si trattasse di uno spazio e di un tempo rinchiusi e delimitati nel corso del normale scorrere della storia. Vedo quel periodo con gli occhi e il filtro di chi è nato, ovviamente, trent’anni dopo e la serie televisiva in questione sembra fare la stessa cosa: il personaggio di Simone Jackson (Nabiyah Be), donna, nera, queer, cantante, ovviamente riceve un trattamento marginale nella parabola della band. Anche perchè poi, per approfondirlo, ci sarebbe stato bisogno di entrare in tematiche socio-politiche e da lì, immagino che per gli esecutori Prime, si sarebbero complicate in più le cose. Insomma: sono tutti bellissimi, vivono a Los Angeles nel momento in cui si doveva vivere a Los Angeles e sfornano una hit dopo l’altra – è davvero il cast a suonare e cantare tutto. What’s not to like?!

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