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intervista a cura di teodoro di giorgio

Naomi Noir, regista, sceneggiatrice e animatrice olandese nata nel 2000, è stata ospite della ventunesima edizione del Lago Film Festival, dove ha presentato il suo cortometraggio d’esordio, Mother’s Child, selezionato nella sezione competitiva Principi Award. Il concorso, che include sette opere di registə under 25, mira a valorizzare le nuove voci emergenti del cinema indipendente, sotto la supervisione di Emma Baruffaldi e Gerard Voltá. Durante il festival, lə registə hanno partecipato a talk e tavole rotonde; con Naomi abbiamo invece approfondito direttamente il suo film in una chiacchierata dedicata.

«Mother’s Child» di Naomi Noir

Dalla tavola rotonda è emerso un filo rosso comune: la rappresentazione della vulnerabilità, intesa non solo come voce dellə registə, ma anche come riflesso del mondo circostante. In Mother’s Child, questa dimensione si esprime in modo stratificato: partendo da un’urgenza personale e biografica — la realtà del caregiving familiare — il film cerca un equilibrio delicato tra l’amore materno e il senso di frustrazione e impotenza verso un sistema burocratico distante. L’animazione diventa così uno strumento per dare voce a esperienze spesso trascurate.


Dal tuo punto di vista, come pensi che l’animazione possa dialogare con altre forme d’arte ed essere uno strumento privilegiato per raccontare storie poco rappresentate, contesti di marginalizzazione ed esperienze inascoltate?

«Il potere dell’animazione, per me, risiede nella capacità di esprimere le emozioni con delicatezza. Una semplice pennellata aggiuntiva può amplificare un sentimento, creando un livello narrativo ulteriore che si intreccia con il lavoro del resto del cast e della troupe — dal sound designer all’editor, al compositore — nel raccontare la storia. Realizzare un film è un’esperienza bellissima, perché profondamente collettiva e condivisa. Le basi stesse dell’animazione sono guidate dalle emozioni. Questo principio attraversa ogni fase del processo creativo: persino una singola pennellata tremolante, appena accennata, può evocare nuove idee e stimolare l’immaginazione del sound designer, influenzando l’intero sviluppo del film. L’animazione ha il potere di catturare ogni emozione, anche le più sottili, tra due estremi. Ogni sfumatura di grigio tra il nero e il bianco trova il suo spazio. È questa sensibilità che fa dell’animazione una forma d’arte perfetta per narrare storie tanto intricate quanto delicate.»

Naomi Noir
«Mother’s Child» di Naomi Noir

Sono d’accordo, e penso che nel tuo film questo aspetto emerga con forza. Le emozioni sono trasmesse da un’estetica particolare e riconoscibile: ibrida, a tratti spigolosa, che si allontana dalla ricerca del realismo fotografico tipica di produzioni più consolidate e ad alto budget, dove però si rischia spesso l’effetto “Uncanny Valley[i]”. Mother’s Child, invece, abbraccia uno stile più vicino al panorama indipendente, giocando con chiavi simboliche e una stilizzazione del tratto. A questo si aggiunge la commistione di elementi 2D e 3D, che crea un’atmosfera unica — talmente peculiare da risultare quasi dissonante — percepibile guardando il corto. Mi chiedevo: queste scelte sono nate da ispirazioni precise o si sono sviluppate più naturalmente durante la produzione?

«L’atmosfera ibrida che hai riscontrato nasce dal frutto di una collaborazione. Lara Adriolo ha realizzato i modelli 3D visibili nella prima parte del film [si tratta di particolari enfatizzati, oggetti specifici in sinergia con il resto realizzato in tecnica tradizionale, n.d.r.], dal tratto che richiama i primi render in computer grafica, come nell’epoca della Playstation 2. Più avanti nel film, molti altri modelli sono stati realizzati da Max Gierkink. Io invece ho curato le animazioni 2D. Per quanto riguarda il tratto, non sono mai stata in grado di disegnare in modo realistico. Da bambina, il disegno era per me un modo per affrontare le difficoltà, per dare forma a ciò che provavo. È ancora così, in realtà. Da quando ho scoperto l’animazione, ho sempre cercato un modo di tradurre i miei disegni in immagini in movimento. A volte questo significa mettere a nudo nei dettagli ciò che è fragile o scomodo, tralasciando ciò che considero “rumore visivo”, come oggetti domestici o persino parti del corpo. Credo quindi che l’animazione sia il mio modo di condividere la percezione attraverso l’emozione, come ricerca di una chiave emotiva. La mia intenzione è raccontare non solo ciò che ho visto, ma anche ciò che ho provato nel vederlo.»

Naomi Noir
«Mother’s Child» di Naomi Noir

Trovo molto interessanti le tue riflessioni, e in particolare mi colpisce come il tuo tratto stilistico riesca a trasformare i disegni in animazione attraverso una lente così soggettiva. Si crea uno spazio di introspezione dove si può misurare la propria sensibilità. Questo approccio mi ricorda in qualche modo i movimenti d’avanguardia del Novecento — cubismo, espressionismo, surrealismo, tra gli altri — in cui l’obiettivo non era tanto rappresentare fedelmente il mondo, quanto mostrarlo filtrato da una prospettiva personale. Allo stesso tempo, questo mi ha fatto pensare a quanto scrive Richard Williams — celebre direttore dell’animazione, noto anche per Chi ha incastrato Roger Rabbit? — che nel suo manuale The Animator’s Survival Kit afferma come l’imperfezione possa diventare una forza narrativa, capace di coinvolgere maggiormente lo spettatore, che tende a completare con la propria immaginazione i dettagli assenti. Partendo da questo equilibrio tra scelta stilistica, emozione e sintesi visiva, ti chiedo: hai incontrato sfide, tecniche o creative, nel mantenere questo flusso durante la realizzazione del corto?

«C’è indubbiamente molta rivalutazione e necessità di feedback per quanto riguarda il modo in cui disegno e animo i miei lavori. Non si vuole che una storia diventi un diario personale: deve riuscire a creare un vero legame con il pubblico. Penso che, in questo senso, si debba “accompagnarlo per mano”, lasciandolo poi andare gradualmente, liberandone le dita di volta in volta. Per far sì che la storia non si riduca a un diario di emozioni o confessioni, mi piace chiedere costantemente feedback al cast e alla troupe, ma anche ad altri registi e animatori. In generale, co-sceneggiare la storia di Mother’s Child con Maya Devincenzi Dil è stato un processo bellissimo. Grazie a Maya, sono riuscita a mantenere una certa distanza tra una storia così personale, lo script e me stessa. Maya, inoltre, ha interpretato (e doppiato) il ruolo di Mary magnificamente, facendolo davvero suo. Sono davvero grata che la realizzazione di un film sia un processo così profondamente collaborativo.»

Naomi Noir
«Mother’s Child» di Naomi Noir

Come ti ha aiutata la brevità del cortometraggio a esplorare temi personali e a sperimentare dal punto di vista visivo?

«Racchiudere l’essenza di questa storia in soli nove minuti è stata una vera sfida. Volevo realizzare un cortometraggio che rappresentasse donne come mia madre e, allo stesso tempo, offrire al pubblico uno sguardo diretto sulle enormi pressioni burocratiche che gravano su chi si prende cura di un figlio con bisogni speciali. Al centro del film c’è Mary: la sua lotta con i funzionari governativi mentre cerca di garantire a Murphy le migliori cure e attenzioni possibili. Era chiaro che in nove minuti non sarebbe stato possibile raccontare tutta la vicenda, ma desideravo aprire un piccolo spiraglio sul legame unico tra Mary e suo figlio. Mi premeva soprattutto mostrare l’amore incondizionato che li unisce, senza nascondere le difficoltà e la fatica di una madre che cerca visibilità. Il limite di tempo ci ha spinti, come troupe, a concentrarci sulla sensazione da lasciare al pubblico, per trasmettere un’emozione quanto più vicina a quella vissuta da Mary. Mother’s Child si conclude in modo agrodolce: avremmo potuto scegliere un finale lieto, ma sapevo che avrebbe rischiato di far sentire donne come mia madre ancora più sole, più invisibili. Spesso, infatti, diciamo alle madri che non dovrebbero sentirsi così. Io credo invece che ci sia forza nel riconoscere il disagio, tanto quanto nel celebrare l’amore incondizionato. È stato come risolvere un puzzle, cercando di bilanciare continuamente queste due dimensioni nel poco tempo a disposizione. Ho lasciato che fosse il cuore a parlare, per così dire, attraverso pennellate. Non volevamo dipingere Mary come una vittima, ma come la madre forte e amorevole che è. Per questo abbiamo deciso di non mostrarla mai in lacrime, preferendo suggerire l’emozione in modo sottile: di tanto in tanto lasciavamo che fossero le sue ciglia a crescere. E, in realtà, quest’intuizione è sbocciata quasi per caso, da un errore compiuto in un momento di frustrazione.»

Naomi Noir
«Mother’s Child» di Naomi Noir

Ed è proprio con uno spiraglio suggerito che il film si apre allo spettatore, con la scena iniziale — inizialmente celata — che si svela gradualmente dal dispiegarsi del sipario di un palco teatrale. Ti va di raccontarci qualcosa in più su questa scelta?

«Ho scelto di aprire il film con un sipario per richiamare un’atmosfera teatrale. Mettere Mary al centro della scena significava darle un vero palcoscenico, perché persone che vivono situazioni come la sua meritano di essere ascoltate attraverso le migliori piattaforme, affinché la loro condizione venga riconosciuta. La storia di Mary e Murphy è molto vicina alla mia esperienza personale con mia madre e mio fratello: condividiamo emozioni e percezioni, spesso eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Quando il personale si intreccia con il politico, e nasce l’urgenza di esprimere ciò che si sente, raccontare la propria verità diventa un gesto naturale. Una delle mie principali fonti d’ispirazione sono stati i cartoni animati degli anni ’30 e ’40, in particolare Betty Boop[ii]. In molti cortometraggi di quell’epoca c’era proprio quel senso di apertura scenica, con tutta l’attenzione concentrata sul personaggio principale[iii]. Ogni gesto, ogni dettaglio era curato con grande attenzione. Oggi, invece, rischiamo di perdere questa complessità, consumando le storie troppo in fretta. Per il sipario ho usato il medesimo modello 3D che richiama le tende che separano le stanze di Mary e Murphy, un piccolo richiamo visivo che avvicina lo spettatore al loro mondo e alla loro intimità.»

Naomi Noir
«Mother’s Child» di Naomi Noir

Nella seconda parte del film la componente 3D prende il sopravvento sul 2D, adottando uno stile volutamente grezzo che richiama le prime sperimentazioni di computer grafica e l’estetica della retro CGI[iv]. Frasi come “Welcome to the fabulous on-hold-with-the-government land” e immagini come la bara con scritto “R.I.P. to the welfare state” sulle cabine telefoniche segnano questo climax. Come sei arrivata a questa sintesi visivo-simbolica così efficace? E in che modo, secondo te, contribuisce a trasmettere le tensioni e le emozioni del film? 

«A volte, mentre lavoro al pub o parlo al telefono con mia madre, alcune frasi mi vengono spontaneamente in mente. Se mi colpiscono, le annoto su un sottobicchiere o su piccoli foglietti. Non essendo l’inglese la mia lingua madre, in questi momenti mi sento libera di giocare con le parole, senza preoccuparmi troppo della correttezza grammaticale, come invece farei in olandese. Questo mi permette di concentrarmi sui miei sentimenti, più che sulle regole linguistiche. Quando scrivo lo script finale in inglese, ovviamente collaboro strettamente con madrelingua per adattare e rifinire le frasi. In questa fase torniamo a “tenere per mano il pubblico”, guidandolo passo dopo passo. Tuttavia, le sensazioni e le emozioni iniziali, nate da questi piccoli momenti di libertà e dai bozzetti grezzi, restano catturate nello script finale, conferendo autenticità e intensità alle scene.»

«Secondo me, l’umorismo è uno dei modi più importanti con cui ci relazioniamo agli altri. Mi piace scherzare tra me e me quando faccio fatica a gestire situazioni dolorose. Sono cresciuta con mia madre costantemente al telefono con funzionari governativi o professionisti sanitari. Alcune chiamate erano così paternalistiche e strane che a volte non potevo far altro che pensare: “Davvero? Ma sul serio, mi stai prendendo in giro?” A volte sembra quasi di essere immersi in un sogno febbrile. Volevamo catturare anche quella sensazione nel film finale.»


[i] Sempre Richard Williams spiega che:

«A un certo punto, ancora ulteriore realismo provoca in noi inquietudine, disagio. Questo fenomeno è chiamato Uncanny Valley

Nel suo The Animator’s Survival Kit, Williams include anche un prezioso contributo di Peter Lord, direttore dell’animazione alla Aardman Animation:

«Come esseri viventi e respiranti, i nostri sensi sono così acuti che possiamo riconoscere un falso da chilometri di distanza.
Quanto più ci avviciniamo all’imitare la realtà, più possiamo percepire il falso!
E man mano che ci si avvicina alla realtà, le piccole cose cominciano a sembrare enormi.
Nel copiare la vita, più ci si avvicina… più profondo è il baratro.»

[ii] Nel libro Animazione. Una storia globaleGianalberto Bendazzi descrive Betty Boop come:

«Una tipica flapper per l’era del jazz appena conclusa. […] Consapevole della sua sensualità.
Era capace di flirtare e di essere autoironica allo stesso tempo.
Tra i vari topi, paperi, conigli, cani e bambini che affollavano i cartoons dell’epoca, la pepata newyorkese risultava quasi una sovversiva.»

Questa libertà espressiva e quello spirito sovversivo si riflettono indirettamente nel sound design di Mother’s Child.

Naomi mi ha spiegato che, pur senza includere jazz letteralmente, si è ispirata alle sonorità libere dei corti di Betty Boop per costruire un contrasto musicale netto:

  • da una parte cori angelici (realizzati da Kris McDonald),
  • dall’altra Devotion, brano noise rock dei Salutingrome, scoperto dal vivo ad Amsterdam.

Il richiamo a Boop e al jazz va inteso come un parallelismo concettuale:
nei corti degli anni ’30-’40, il jazz agiva come linguaggio espressivo diegetico, legato al movimento e all’azione, con improvvisazioni, deformazioni surreali e armonie insolite.
Allo stesso modo, nel corto il dualismo sonoro crea uno spazio emotivo complesso, dove amore materno e conflitto sociale si intrecciano in una narrazione libera, “organica”, che richiama la creatività anarchica e improvvisativa del jazz.

[iii] Durante l’epoca d’oro dell’animazione americana, la Rubber Hose Animation (anni ’20-’30) si distingueva per personaggi dalle braccia e gambe flessibili come tubi di gomma, mossi in modo elastico e teatrale.
Spesso queste mascotte venivano introdotte in scena con un vero e proprio sipario teatrale, che ne enfatizzava la centralità.

Questo espediente visivo era comune nei corti dei Fratelli Fleischer – creatori proprio di Betty Boop – e serviva a mettere in risalto la protagonista come fosse una diva da palcoscenico.

Esempi notevoli sono i corti Betty Boop’s Trial o Betty Boop’s Birthday Party.

[iv]  Il termine Retro CGI, noto anche come Silicon Dreams, descrive un’estetica visiva tipica di:

  • prime animazioni 3D, arte digitale e videogiochi prodotti tra metà anni ’80 e primi 2000;
  • ambienti onirici, surreali, a tratti inquietanti;
  • modelli semplici, texture a bassa risoluzione, palette sature e luci artificiali.

Il termine è stato coniato da Karl Kraft, fondatore del gruppo Facebook Silicon Dreams, ispirato alle workstation grafiche Silicon Graphics, leader del settore tra gli anni ’80 e ’90.

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