intervista a cura di virginia maciel da rocha
In occasione della presentazione di «O Último Azul», già Orso d’Argento alla scorsa Berlinale, durante la IV edizione del Pianeta Mare Film Festival, abbiamo scambiato due parole con il regista Gabriel Mascaro.

Partiamo dall’inizio: da dove hai recuperato l’idea originale e la storia per realizzare questo film e come è stata la realizzazione?
Gabriel: «Il progetto ha origine da un’esperienza personale: quando mio nonno è venuto a mancare, mia nonna, all’età di ottant’anni, ha deciso di iniziare a dipingere. Mi ha segnato molto questa sua svolta, lasciandomi impressa l’immagine di un corpo ormai anziano che, però, riprende a fiorire in qualche modo. L’ispirazione di base è stata questa, nello scrivere la storia di una donna anziana che riprende a vivere; nel momento, però, in cui ho iniziato a fare ricerca sul modo in cui il corpo della terza età viene rappresentato nel cinema, mi rendo conto che la stragrande maggioranza delle storie che vengono narrate sono tutte a sfondo triste. Spesso si tratta di un conflitto che il personaggio ha con la morte, e quindi la rappresentazione prevede che si abbia a che fare con un corpo debole, sul finire della vita. Un altro luogo comune sui film con protagonisti anziani è la messa in scena della dissociazione del personaggio con i tempi moderni, una continua rievocazione del glorioso passato che, però, non tornerà più e questo si ripercuote in modo negativo su chi è entrato ormai nella terza età. Volevo realizzare un film diverso, su una donna anziana, ambientato nel presente, che però fosse pieno di vita e di desiderio. Ho cercato anche di fare una riflessione sui generi cinematografici che di solito vediamo al cinema, ormai codificati e in un certo senso convenzionali. Il tema del coming of age o del road movie ha sempre a che fare con personaggi giovani e con una certa fascia d’età, la mia idea era di invertire questo paradigma, inserendo un corpo “vecchio” dentro generi associati a situazioni giovani».

Uno dei punti di forza del lungometraggio è sicuramente il tono: ironico, leggero, che anche in una storia di pesante critica sociale e contro il capitalismo, finisce per non prendersi davvero sul serio. Come giustamente hai notato, siamo abituati a vedere storie felici fino a una certa fascia d’età e storie tristi da un certo anno di vita in su, come se, una volta superata quella linea immaginaria, non fosse più consentito affrontare certi temi con la stessa leggerezza di un tempo.
Gabriel: «Sì, esatto, hai detto bene, il mio è un film scherzoso e giocoso, playful. Non si prende molto sul serio perchè, alla fine, nella vita serve anche questo. Ad aggiungere questo aspetto alla narrazione generale viene in soccorso la colonna sonora: la protagonista stessa gioca con la propria esperienza di fronte allo spettatore e non è un caso che abbiamo fatto iniziare il tutto con una scena di ballo, come se ricevessimo noi in primis un invito a entrare a giocare con lei nel suo mondo. La musica che ricorda le colonne sonore circensi spinge molto in questa direzione».

In questi ultimi tempi, in Europa, sembra che tutti si siano ricordati improvvisamente dell’esistenza del cinema brasiliano. Tra Walter Salles a Venezia lo scorso anno, Kleber Mendonça Filho che vince un importante premio al Festival di Cannes e il tuo film alla scorsa edizione della Berlinale, sembra che ci sia sempre bisogno di un grande riconoscimento festivaliero. Quale pensi che sia il peso del circuito dei festival in un clima culturale che si è sempre contraddistinto per il suo spiccato occidentalismo ed eurocentrismo?
Gabriel: «Tutte queste situazioni senz’altro aiutano, soprattutto le case di distribuzione che, in un mercato molto “timido” ancora da questo punto di vista, si fanno carico di meno rischi possibili. Distribuire un film che non abbia già una certa predisposizione favorevole da parte del pubblico è un salto nel vuoto, ma quando si verificano situazioni come quella di Ainda Estou Aqui, che è arrivato agli Academy Awards, proseguendo con O Último Azul, che conferma un buon periodo cinematografico per il Brasile, alla fine si crea anche una certa curiosità e aspettativa da parte del pubblico nello scoprire che cosa ci sarà dopo. È un bene che tutto questo si stia verificando, grazie ai film che dimostrano che esiste un certo fermento culturale, anche al di là dell’oceano».

Per concludere, il tuo, alla fine, è un film che racconta un Brasile un po’ inedito, almeno agli occhi del pubblico qui in Europa, abituato a pensare al cinema brasiliano ancora in termini di Cidade de Deus.
Gabriel: «C’è sicuramente un po’ di saturazione, in Brasile, per quanto riguarda alcuni temi che vengono affrontati nel cinema. Il cinema brasiliano ha ripreso e raccontato molto la favela, la dittatura militare, per cui volevo parlare di tutto un altro aspetto del Paese, unendo un’allegoria e una metafora che non fossero all’ordine di giorno in un certo tipo di cinema che, comunque, propone una lettura critica del contemporaneo. Ho giocato con la fantasia per creare una atmosfera molto diversa, ricollegandolo al tema della bava azzurra della chiocciola come a una scia utopica. All’interno di un contesto assurdo e distopico, che fa leva sulla dislocazione forzata dalle persone, questo senso di magia e incanto deriva dalla chiocciola come creatura e animale magico, dotato di poteri di aprire il cammino e di ispirare, chi lo segue, ad adottare uno spirito che vada oltre la sopravvivenza, per abbracciare il resto della vita. Ho voluto raccontare la storia di una donna che scopre che riesce a volare molto più in alto di quanto inizialmente pensava, un rito di passaggio in un coming-of-late-age, con una protagonista sensazionale, interpretata da Denise Weinberg, un’attrice che non ha avuto paura di mostrare i segni dell’età sulla propria pelle e che sta proponendo un nuovo canone di bellezza, molto più libero da tutti i costrutti sociali sull’età».
Il film sarà distribuito in Italia dal 30 ottobre da Officine UBU, non perdetelo!