approfondimento a cura di lorenzo giuliano
Archivio Aperto, festival sul riutilizzo del materiale d’archivio familiare organizzato dalla Fondazione Home Movies, ha dato questa definizione del film diretto da Diana Allan: «Partition è un film sperimentale che unisce filmati d’archivio dell’occupazione britannica della Palestina con registrazioni audio di rifugiati palestinesi in Libano, una riflessione su ciò che i corpi ricordano e gli imperi dimenticano».

Tutti i filmati d’archivio, girati dal 1917 al 1948, sono stati infatti presi dagli archivi coloniali britannici della Palestina mandataria. Per non pagare i diritti d’autore all’istituzione britannica, però, la regista Diana Allan ha deciso di rigirare tutto il repertorio in pellicola da 16mm, rimaterializzandolo attraverso il suono extradiegetico e modificando le immagini con lo strumento del ritaglio, l’ingrandimento e la modifica della loro durata. Tutte le voci dei palestinesi che commentano il film e raccontano la propria storia si uniscono ai ricordi personali, che provengono invece dal Nakba Archive, un collettivo che registra storie dei rifugiati palestinesi in Libano (l’archivio, tra l’altro, è stato co-fondato proprio dalla regista nel 2002). Il film viene completato da Allan nel dicembre del 2024 ed è stato presentato in anteprima mondiale all’International Film Festival di Rotterdam (uno dei festival più importanti per film indipendenti, sperimentali e documentari) a gennaio 2025, per poi iniziare un grande giro tra i maggiori festival di documentari, cinema del reale e archivio fino ad arrivare qui a Bologna ad Archivio Aperto.

Una contrapposizione tra unione e partizione è ciò che contraddistingue il film. Unione tra passato e presente, tra immagine e suono. La partizione è sempre presente tra immagine e suono e soprattutto si riscontra nella separazione forzata del popolo palestinese dalla propria terra. Quei filmati muti dei primi del Novecento finalmente hanno una voce, una voce di qualcuno che veramente ha vissuto e sofferto il colonialismo nel suo paese — «Quanto è stato irritante, il colonialismo!», recita una piccola parte di una delle canzoni incluse all’interno del film, a sottolineare questo senso di esclusione dalla terra e dalla propria storia. I glitch che vediamo nei filmati si connettono a quella foschia, nebbia che si forma nella perdita e sottrazione dei ricordi dei palestinesi. Un’altra costante all’interno del film è la presenza dell’oscurità ed è proprio così che inizia il film: sullo schermo nero si sente un lamento funebre in arabo che si rivolge alla memoria e tutto ciò che è successo negli anni può essere testimoniato solo dalle onde del mare. Questa oscurità caratterizza tutto il film a significare come è stato tutto cancellato dalle storie e occupazioni coloniali della Palestina. Un modo per capire come le storie raccontate da sole immagini possano dire una cosa ma la verità è un’altra e la si scopre dalle voci delle persone che hanno subito quelle storie.

I palestinesi riscrivono la propria storia attraverso la voce, il canto e il lamento funebre tramandano le storie attraverso di esse. Proprio il canto è ciò che permea tutto il film e due sono le cantanti coinvolte, Sumaya Al-Haj (un’amica della regista) e Amal Kaawash (una famosa cantante palestinese che vive in Libano) che, con la loro reinterpretazione di canzoni tradizionali, raccontano il patrimonio culturale e la storia del paese. Molto importanti all’interno del film sono anche i silenzi, un momento di pausa in cui si riflette su ciò che si è visto e soprattutto su ciò che si è sentito fino a quel punto. Un altro momento forte e coinvolgente all’interno del film non può che essere la processione in un villaggio, quando tra la folla si intravede una bambina e la voce fuori campo (sempre registrata e presa dalla regista presso al Nakba Archive) racconta al pubblico alcuni ricordi personali. In questo racconto viene spiegato che quella bambina, definita molto bella e chiaramente affascinata dalla telecamera, e vuole essere chiamata «Meiroun», come il villaggio dove viveva suo nonno tanti anni fa e da dove è stato ingiustamente sfrattato. Il passato risuona nel presente e tutto fa pensare a ciò che sta succedendo in questi giorni a Gaza, al genocidio dei palestinesi, alla sofferenza che questo popolo sta provando da decenni, ma anche a ripensare alle tantissime immagini e video che abbiamo visto finora sulla Palestina e capire che oltre a quelle foto ci sta una voce, quella di un popolo che resiste e continuerà a farsi sentire e a raccontare la sua storia. Free Palestine.



