approfondimento a cura di pavel belli micati
Approfondimento su uno dei cortometraggi che saranno presentati durante la serata conclusiva di INDOCILI (sigh!) in collaborazione con Lago Film Festival. L’appuntamento è per il 20 maggio, come sempre al Cinema Beltrade.
Nel panorama spesso autoreferenziale, quasi sempre post-romantico, delle narrazioni di malattia e rinascita, il corpo ammalato è rappresentato come un simbolo sacrificale e la guarigione è raccontata come una promessa per i posteri. Baldilocks, il primo cortometraggio di Marthe Peters presentato in concorso alla Berlinale Shorts 2024, cerca di superare questo trattamento generico. Baldilocks, nella sua traduzione inglese dall’olandese Kaalkapje, è una parola affettuosa, un nomignolo che si usa per designare una persona senza capelli, calva. “Baldilocks” è come viene chiamata dai genitori la regista dell’omonima opera, che racconta della sua esperienza come bambina sopravvissuta al cancro. In una miscellanea tra reperti di archivio personale e scatti dal proprio ordinario, Peters ricostruisce un reportage d’infanzia che è anche storia di malattia ma, a dispetto di quello che ci si può aspettare dal genere, non riflette sull’unicità dell’esperienza da inferma né apre a rinascite metafisiche di alcun tipo. Senza togliere precisione alla lente delicata che indaga sui sensi comuni – e l’immaginario stereotipo ad esso legato – che accompagnano la malattia, Peters demistifica l’effetto catartico di narrazioni sui generis che risultano in sentimentalismi che toccano nel profondo il cuore ma che spesso stagnano in superficie quando si tratta di raccontare la complessità dell’epoca – e la sua mente – contemporanea.
Quindi, non la malattia come metafora, per dirla con Sontag, ma il cancro come un’ellissi nel passato che ha ripercussioni fin dentro al presente della voce narrante di Baldilocks, sembra voler spiegare il trattamento poetico di Peters che, ricostruendo la sua infanzia singolare, si confronta con le ritorsioni che il suo sviluppo unico ha prodotto sul proprio corpo. «Ci vuole un esercito per tenermi in vita», ecco l’incipit dove la protagonista elenca la serie di medici, dai generali agli specialisti in sofrologia, con cui collabora da quando, vent’anni fa, è guarita dalla spaventosa malattia. Lo spavento però non è il suo, propriamente, in quanto la regista è nata praticamente a ridosso della diagnosi; piuttosto è quello dei genitori che l’hanno assistita nei primi anni di vita, tra sale d’ospedale e interventi, dialisi e analisi, trattamenti propedeutici, che accompagna il suo sviluppo. Le prime immagini si soffermano su una madre che gioca con la figlia in casa, una deliziosa bambina di qualche anno che non ha i capelli, ma un tubo per facilitare la respirazione dalle narici. L’archivio di famiglia, che Peters recupera dopo una conversazione avuta con i suoi, mostra la quotidianità di un padre e una madre alle prese con una bimba ammalata, una bimba sfortunata potrebbe suggerire la descrizione, ma è precisamente quella generalizzazione dicotomica fortuna/sfortuna che Peters smaschera, raccontando una storia dove c’è poco da sperare: è lei, dopotutto, che ne patisce le conseguenze, il suo pubblico può solo disperarsi.

Cosa fa di Baldilocks un’opera diversa del genere confessionale, ora piegato al racconto di malattia? Se le variazioni sul tema rendono spesso, dell’esperienza d’infermità, una morale di speranza o una parabola a posteriori che trova senso nel confronto tra il passato prima della malattia e il presente rinnovato dalla sua esperienzialità, resta nondimeno problematico pensare o addirittura aspettarsi che drammatizzazioni su di essa debbano necessariamente insegnarci qualcosa. E ciò che Peters porta a denuncia è proprio questo uso, generico, del racconto, di genere: «Adoro il sapore del cibo in bustina […] mi accompagna nei giorni in cui non riesco ad alzarmi dal letto», così la regista racconta un presente che non ha nulla da invidiare al suo passato; così facendo, la sua voce rivendica il diritto a mostrare una prospettiva diversa sul proprio vissuto, una posizione che incide naturalmente sul suo stesso presente. 24 anni, olandese, formazione tra Bruxelles e Parigi, con questo debutto anomalo Peters non disseziona la sua malattia, né porta in analisi l’evento traumatico, ma semplicemente rendiconta le propaggini che, a distanza di vent’anni, la malattia e il trauma hanno avuto sul corpo e nella mente. È un punto di vista soggettivo sulla propria stessa esperienza, spostato un po’ più in là dalla lontananza con cui esamina i filmati che registrano la sua infanzia attraversata dalla malattia.
La memoria muscolare incide sui gusti, le preferenze e le idiosincrasie che sottendono alle nostre scelte, anche quelle meno attese o auspicate. Se un bambino svezzato col veleno vede nel male una consolazione, una bambina nutrita tramite un tubo cosa ci vede? «L’ironia di un’ex malata di cancro che fuma non è difficile da vedere. Vorrei svegliarmi domani mattina e non aver mai fumato in vita mia, ma non vedo l’ora di svegliarmi e fumare un’altra sigaretta» – Peters spiega lucidamente che non si sente in colpa perché fuma, ma perché sa quanto i suoi genitori si dispiacerebbero se sapessero che, nonostante lei abbia lottato contro la morte da piccola, è come se ora la sfidasse nuovamente. Ma lo stesso tabagismo descritto serve un ragionamento più ampio e meno personalistico: guarire da una malattia non significa necessariamente ricevere un’opportunità in più dalla vita, proprio perché un cancro non è questione di cattiva sorte, né le sue conseguenze devono per forza compensare la sua esperienza. Adottando un registro a metà tra il clinico e l’affettivo, Peters non estetizza il suo dolore né drammatizza la sua condizione; piuttosto cerca di raggiungere un piano medio, neutro attraverso cui articolare ciò che per lei ha significato l’esperienza della malattia. Non è un’anamnesi poetica, né un trattamento medico, quello che serve la narrazione; forse, è più un’apologia de-soggettivata. L’opera poi, tra i continui passaggi dal passato registrato al presente suggerito, non segue un arco evolutivo canonico, semplicemente raccoglie le impressioni, i sintomi e le immagini che rievocano il bisogno di rendere con esattezza ciò che spesso viene romanticizzato, a spese di ciò che invece viene taciuto.

L’esperienza di malattia, dunque, non serve il meccanismo da cui parte la narrazione, ma diventa la struttura che regola l’eziologia, medica, e la crescita, individuale, della sua protagonista: non c’è una guarigione nel senso comune di un ritorno a un prima, solo una nuova e diversa sopravvivenza come approdo a ciò che è unico e ineluttabile, precisamente come le condizioni personali che attraversiamo da soli in quanto esseri umani, forse troppo umani. Ci sono sì un corpo modificato dalla malattia, un pensiero in costante ascolto con la propria corporeità, un’ossessione a tratti patologica tra l’osservabile che viene semplificato e il sensibile che rimane inespresso, ma non per questo Baldilocks è il racconto di una storia triste dalla conclusione nichilista; anzi, grazie alla distanza temporale, la precisione chirurgica e il procedimento anatomico con cui la regista-protagonista instaura il dialogo con la sua condizione universalizza tale condizione. Il trauma non è soggetto a trattamenti poetici, il cancro non ha nessuna sublimazione retorica: il trauma è semplicemente documentato. Mani che massaggiano con energia il corpo, cera colata sulle dita, pastelli colorati e gatti da coccolare –– il quotidiano di Peters, interpolato dalle riprese, serve a confronto con un passato da cui c’è poco da imparare: il focus del presente non è sul nonostante ciò, ma sul proprio per ciò.
Non una catarsi emotiva, piuttosto un’archiviazione della sua esperienza personale, Baldilocks sposa quell’intenzione autobiografica di distanziarsi dal proprio vissuto raccontandolo, eppure si separa da quella necessità artistica di espiare, drammaticamente, il dolore che trasforma le storie di malattia in occasioni irripetibili di guarigione e rinascita; perché semplificare le contraddizioni interne che una bambina con il cancro deve affrontare, soprattutto da adulta, non serve né a lei né al mondo attorno a lei, tutt’al più può consolare i suoi genitori. «Puoi fare una foto mentre registri?» la madre chiede al padre che ha la videocamera se è possibile, al contempo, immortalare un istante nel suo processo in divenire. Alternando un evento passato al suo fluire presente, Peters parla con se stessa, riattivando una memoria fisica che resiste, con tutte le sue defezioni, all’oblio delle torture fisiche e le privazioni emotive che anni di cure e soggiorni ospedalieri hanno portato con sé: «L’ospedale mi accoglie come un miracolo della medicina, si sprecano i momenti in cui i colleghi si riuniscono per ammirare i miei denti finti e come sono diventata brava, dopo un trattamento così intenso. Sarebbe ingrato affermare che non ho molta voglia di vivere, ai medici che hanno fatto di tutto per salvarmi. Sono stata curata, ma non senza essere stata danneggiata durante il processo».

Peters fa spazio alle conseguenze della malattia che registrano condizioni fisiche tra le difficoltà respiratorie e i disturbi alimentari, ma parla anche della diagnosi di depressione, causata sia dalla modifica biologica sia dal trauma della violenza medica che è servita per curarla. È un autoritratto crudo a metà tra il visibile dei reperti raccolti dal proprio archivio e l’invisibile dei ragionamenti che la sua voce porta a confessione, secondo una logica evenemenziale che non procede cronologicamente ma dissemina sentimenti e ne raccoglie le loro possibili cause. La distanza temporale poi autorizza all’indagine sul corpo come archivio e il trauma come eredità sia fenomenica sia noumenica che non prende forma nell’autocommiserazione, né vuole descrivere una speranza di rinascita: è un’eredità naturale, totale, il semplice risultato della vita che ha vissuto. I frammenti della malattia non chiedono un esorcismo, ma svolgono un’opera di catalogazione e riconoscimento. Come un atto bibliotecario, che non sprigiona emozioni ma individua la forma finale di un’esperienza che si può affrontare in molteplici maniere, nessuna delle quali è mai davvero giusta o mai davvero sbagliata. Il montaggio segue la dialettica dell’ipostasi tra un passato di cui non ricorda precisamente tutto – a parte i sapori, gli odori e le sensazioni – e un presente complessificato dalla propria esperienza di sopravvissuta.
«Ogni volta che vedo un bambino, sento dentro di me un vuoto di speranza, diverso dal vuoto che ho cercato di riempire negli ultimi 24 anni e che ora è stato leggermente attenuato dagli antidepressivi. Ma un vuoto rimane vuoto, per quanto speranzoso possa essere». La voce dolce di bambina imperfetta riflette sulla condizione invalidante di miracolo medico, denuncia quel senso di estraneità rispetto alla propria sopravvivenza, anche esprimendo quel senso di sollievo che prova nel constatare, nei giorni meno felici, di non essere viva per fortuna, ma per via del lavoro di un’equipe specializzata. Questa ambivalenza si manifesta nella ricerca di tracce tra le cicatrici delle operazioni e i desideri promossi dalla condizione d’infermità, nel tentativo di riconciliare il corpo presente con il passato. Il cinema è colmo di rappresentazioni della perdita e della malattia, ma scarseggia di racconti del genere che non scivolino in cliché emotivi e/o stereotipi cinici –– quelli che, in fin dei conti consolano, più che i suoi autori, il pubblico che li guarda. Baldilocks s’inserisce in una categoria che indaga il trauma in un linguaggio poetico, ma non regala epidittiche sulla malattia, né serve massime sull’eccezionalità della vita e l’importanza di coglierne sempre la bellezza: in questo senso, è un’opera onesta. Peters usa le immagini e le parole non per emozionare il suo pubblico ma per invitarlo a riflettere, aprendo alla possibilità reale di raccontare il dolore senza rappresentarlo attraverso metafore alte o similitudini basse; senza descrivere la guarigione come agnizione finale, ma come conseguenza ultima di una logica a metà tra la profilassi ospedaliera e la filologia emotiva. È un’opera che invita a riconsiderare la vita non in antitesi alla morte, ripensando la sopravvivenza come negazione della malattia, senza però dimenticare tutte le implicazioni, e soprattutto le contraddizioni, che risultano dalla sua operazione.