di alberto
Oggi chiudiamo il nostro percorso con la 74° edizione della festa internazionale del cinema di Berlino presentandovi due ultimi film che hanno attirato la nostra attenzione durante il festival.
“Small Things Like These” di Tim Mielants
Small Things Like These di Tim Mielants è ambientato nella metà degli anni ottanta, in un freddo paese d’Irlanda, dove Bill Furlong (Cillian Murphy) è un padre seriamente dedito al lavoro e alla sua famiglia. Il nucleo familiare è composto dalla tenera moglie, Eileen Furlong (Eileen Walsh), e dalle amorevoli e numerose figlie. Purtroppo l’impegno lavorativo nella piccola impresa di carbone, le difficoltà economiche e i demoni del passato perseguitano Bill, ormai insonne da tempo e sempre più silenzioso. A rendere ancora piú complicata la sua situazione è una casuale e inquietante scoperta che riguarda le suore e la chiesa locale, la più importante istituzione del luogo. La pellicola è un viaggio nella psiche tormentata dell’affaticato protagonista, costellata di tristi ricordi d’infanzia che riaffiorano continuamente. La forza del film risiede nel rapporto subalterno e confittuale tra l’antagonista del film, la suora madre Sr. Carmel (Clare Dunne), e il personaggio di Cillian Murphy. I gesti e i silenzi nelle situazioni in cui i due interagiscono creano l’acme della tensione della pellicola, in cui la morale è messa in discussione e gli ideali di una intera vita vacillano.
A fianco della meravigliosa prova attoriale del personaggio principale, i personaggi secondari sono interpretati da attori di rilievo e le performances riescono ad essere travolgenti. Tuttavia è difficile capire quanto peso abbiano sulla vita del protagonista, non comparendo così spesso e non risultando apparentemente di vitale importanza. Il focus ricade comunque sempre sul protagonista e l’utilizzo continuo dei flashback dovrebbe aiutare lo spettatore ad empatizzare con Bill. Sfortunatamente la più grande debolezza della pellicola è la scelta registica di porre l’accento su eventi non così importanti, tralasciando altri che porrebbero luce su questioni interessanti, ma che si limitano ad essere un contorno. Salvo alcune fondamentali eccezioni, non si comprende così fino a fondo che la causa scatenante del malumore costante del protagonista dipenda dall’infanzia. Lascia stupefatti il finale del film, ispirato ed elegante nei movimenti di macchina e nel montaggio, ed è reso ancora più interessante considerando la piccola scenografia in cui prende atto, concludendo dignitosamente la pellicola.
“All the long nights” di Shô Miyake
“Senza il giorno molti di noi non sarebbero mai nati, ma senza la notte non avremmo mai potuto vedere oltre il nostro mondo”
Takatoshi Yamazoe (Takuto Matsumara)
Debutto alla settantaquattresima edizione della Berlinale, All the long nights di Shô Miyake è un film che parla direttamente alla generazione di giovani adulti, cercando di comprenderla e analizzarla nelle sue virtù e problematicità. La cinepresa, esperta e invisibile, segue le vite di due giovani giapponesi che lavorano in una piccola fabbrica di microscopi e vari marchingegni di elettronica per bambini. La giovane Misa Fujisawa (Mone Kamashirashi), affetta da una forma grave di SPM (sindrome premestruale), incontra nel suo nuovo lavoro Takatoshi Yamazoe (Takuto Matsumara), un giovane apatico, annoiato, indifferente alla vita e alla sua nuova professione dopo l’allontanamento dal suo precedente mestiere. Il licenziamento purtroppo non è stato voluto, infatti il giovane a causa di una forma acuta di attacchi d’ansia di cui soffre da poco, è impossibilitato a fare una serie di cose fondamentali per continuare a lavorare.
La pellicola è uno “slice of life” che intreccia commedia e dramma senza mai risultare banale. In effetti la semplicità delle azioni quotidiane e delle problematiche dei due coprotagonisti mostrate sulle schermo è quasi poetica. È nei piccoli gesti e nel confronto delle personalità diverse che il film riesce a costruire una persistente tensione emotiva, a volte esplodendo in forti gesti di rabbia incontrollata o contraendosi in genuina comprensione e gentilezza. Il regista fa un uso impeccabile e meticoloso delle luci e della fotografia, ricordando le opere di Ryusuke Hanamaguchi, autore di Drive my car. La differenza tra i due però risiede nel diverso impiego del linguaggio, infatti Sho Miyake in All the long nights si avvale della comicità piú spensierata per comprendere a fondo situazioni problematiche. Appunto le malattie trattate hanno un notevole impatto negativo sulla vita dei due personaggi principali, ma i momenti comici sono spontanei e spesso disinnescano sapientemente la drammaticità. Anche i personaggi secondari sono altrettanto eccezionali e viene dato loro spazio per far spiccare, o perlomeno intravedere, le proprie elaborate personalità e obbiettivi di vita, aggiungendo o togliendo gravitas alla narrazione.
bye bye, berlinale.