di pavel
Che Yorgos Lanthimos fosse un regista eccezionale, questo lo sapevo. Lo adoro dai tempi di Dogtooth. Che Emma Stone si rivelasse capace di fare scelte originali e di produrre opere strepitose, questo lo avevo capito da un po’. Guardare The Curse (in onda ora su Paramount+) credo che sia per me ciò che è stato per la generazione ‘70 guardare Twin Peaks su Canale 5. Ma che Lanthimos che adatta un romanzo di Alasdair Gray con Emma Stone potesse salvare la settima arte – questo non ci avevo pensato.

Avevo concluso l’annata 2023 amareggiato. Che la mia ultima volta al cinema sia stata per C’è ancora domani, abbia potuto contribuire alla sensazione di delusione nei confronti dell’audiovisivo? O forse ha contribuito, a tal proposito, il fatto che il film di Paola Cortellesi se lo sono visto davvero tutti quanti, parenti inclusi. E che questi parenti siano riusciti a parlarne anche a Natale, forse ha compromesso irrimediabilmente qualche mia facoltà neuronale. Vi ricordo, cari, che di alcune cose non bisogna per forza parlarne. Anzi, alcune cose, è meglio dimenticarle. Eppure, se alcune cose è meglio dimenticarle, purtroppo altri traumi si innestano nelle fibre dei nostri muscoli, si incastrano negli interstizi delle articolazioni, rimangono impiantate nei gangli neuronali, rimanendo lì per sempre. È la nostra memoria muscolare.

Io non volevo vedere più film per un po’. Complice la sessione, gli impegni, il fidanzato al nord, la quantità di porcherie prodotte e distribuite negli ultimi tempi. Io, avevo deciso, per un po’, che me ne sarei stato tranquillo, lontano da schermi: sordo alle vibrazioni di massa, cieco alle visioni collettive, avevo bisogno di uno spazio e di un tempo per ragionare sullo stato delle cose attuali, magari pure rifiutarlo, ed esercitare un po’ il pensiero laterale. Volevo morire per un po’ (che ogni tanto non guasta eh, a me tantomeno che a voi). Il fatto è che, sotto sotto, sono un inguaribile romantico. Per quanto possa sentirmi esistenzialista e cinico la maggior parte del tempo, mi commuovo quando scopro la bellezza, che sia un esperimento sociale di fanpage o il cucciolo di un labrador, o un film di Lanthimos. Noi romantici, tolta la malinconia, le idiosincrasie in disuso e la postura religiosa, crediamo fortemente nel progresso. Sappiamo che tutto è perfezionabile, e come scriveva Emerson, anche l’uomo può trasformarsi in una versione sempre migliore di sé. E il progresso non puoi fermarlo; allo stesso modo, non puoi affogare il tuo ego in acque nostalgiche, né forzare il super-Io a credere che, un tempo indistinto nel passato, le cose fossero migliori. Spoiler alert: non lo erano. Ecco, magari alcune semplificazioni piacciono perché rassicurano, perché risultati immediati di istanze retrospettive, rivisitazioni neo-storicistiche con pretese pseudo-darwiniane che ci confortano, mostrandoci che esiste sempre un ethos nella storia dell’evoluzione e che la nostra civiltà non è in declino. Spoiler alert, di nuovo: c’è solo pathos nell’aria e sì, la nostra civiltà è al tracollo.

Forse, negli ultimi tempi, ero diventato un tantino troppo disincantato. Poi ho visto Poor Things. Ora sono un’altra persona. Un po’ come Bella Baxter — qui interpretata da Emma Stone, meravigliosa creatura del Dottor Godwin, uno strampalato chirurgo dalle sembianze di Willem Defoe –, sono dovuto morire diverse volte, e rinascerne altrettante, per permettermi di continuare ad essere ottimista, in questo mondo. Il cronotopo è una Londra tardo-vittoriana; le atmosfere sono magnifiche litografie steam punk dai colori metallici, nuances raffaellesche che immergono lo spettatore in un sogno di Lemony Snicket scritto da Edgar Allan Poe e diretto da Guillermo del Toro. Dell’ultima opera di Lanthimos, vincitrice del Leone d’Oro a Venezia, si è detto molto. A volte troppo, a volte sbagliato (permettetemi la citazione a Ilary Blasi). Il fatto è che ci sono cose talmente belle che è impossibile descriverle.

Sapete, non ho mai fatto ricerche statistiche sul numero di aggettivi con accezione negativa rispetto a quello degli aggettivi con una positiva nei lemmi dei dizionari italiani. Non sono sicuro che la nostra lingua abbia più parole brutte che belle, ma di una cosa sono certo: distruggere ci viene benissimo; creare, ci viene di merda. E no, non ho mica detto che non ci viene. Magari non creassimo. E invece ci proviamo, con risultati disastrosi, per giunta (cfr. C’è ancora domani di Paola Cortellesi). Io che non impazzisco per gli scozzesi né per la finzione postmoderna, non avrei mai pensato che a salvare questo cinema che affonda sarebbero arrivati Lanthimos e Emma Stone con un romanzo dell’autore di Lanark. Il regista si appropria di un romanzo di Grey pubblicato nel 1992, e lo adatta a suo piacimento. Lontano dalle intricate trame entro cui la narrazione del romanziere scozzese si dipana, Yorgos firma un coming of age neopositivista, un’epica omerica che riesamina lo scientismo di fine Ottocento tramite un filtro socratico, autorizzando la quête post-romantica di uno dei personaggi più dinoccolati del secolo: un’ottimista. E nel farlo, Yorgos, ci mette tutto ciò che è sua programmatica: semiotica, mitologia, filosofia del linguaggio, e uno spassionato amore per la Vita.

Ci dice che è tutto così relativo, che non dobbiamo prenderci troppo sul serio, che ci bastano, al giorno d’oggi, belle idee e grandi speranze. Inno alla Gioia che tutti gli psicodepressi come me dovrebbero vedere, il Viaggio al Centro del Cuore di Bella Baxter forse non è per tutti; men che meno per coloro che credono che Barbie di Gerwig sia un capolavoro transfemminista. Vaffanculo a loro. Ora, vi dirò due cose. Per i più impavidi, fatevi un regalo e andate a vedere il capolavoro del decennio. Ne sarete estasiati. Per coloro che hanno smanie culturologico-perfomative (perché non leggono i libri e credono che i film siano buoni sostituti): Poor Things non parla di nulla di cui voi non vogliate parlare. Però fate attenzione, la cosa è reciproca. Se non lo capite, non dovete parlarne per forza. Soprattutto a me.
Dal 25 gennaio al cinema.
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