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di giulia

«La prossima volta è la prossima volta, adesso è adesso.»

Questa volta vorrei partire dalla fine. Chi è rimasto in sala fino al termine dei titoli di coda di Perfect Days di Wim Wenders avrà notato quel frame finale, in bianco e nero, dove il regista ci ha voluto spiegare il significato della parola komorebi: termine giapponese che indica il luccichio di luci ed ombre creato dalle foglie che ondeggiano al vento. Esiste solo una volta, in quel momento. 

Kôji Yakusho in “Perfect Days” di Wim Wenders (Credits: DCM).

Qui possiamo far risiedere il senso del film, in quanto Perfect Days ci rivela che è possibile apprezzare e godersi anche i momenti più “monotoni” della propria vita, insegnandoci ad apprezzare anche le più piccole, autentiche e passeggere emozioni. Il protagonista Hirayama (Kôji Yakusho) ci mostra, senza usare troppe parole, come trovare piacere nella normalità. L’accettazione nell’abbracciare la vita così come viene, pratica ormai sempre più trascurata in questa moderna vita veloce, diventa il cuore di un film che con il suo silenzio ha fatto in me tanto rumore. Hirayama è un uomo di mezza età che di lavoro pulisce i bagni pubblici di Tokyo. Si alza ogni giorno all’alba senza bisogno di mettere una sveglia, procedendo così ad attuare una routine creata su misura per lui: sia nel lavoro che nei pochi momenti di tempo libero tutto segue uno schema. 

“Perfect Days” di Wim Wenders (Credits: DCM).

Nonostante la sua vita sia moderata da progetti ben precisi, capiamo ben presto che Hirayama non è un uomo freddo e chiuso in sé stesso. Certamente non è il tipo che si spreca con parole non necessarie, ma la sua indole di osservatore dei minimi dettagli si applica anche sulle persone che lo circondano. Hirayama ascolta e, a differenza di molti, comprende e ricorda. Durante la visione ho provato contemporaneamente sentimenti di empatia ed invidia. Mi sono riconosciuta nelle scene dove lui attentamente ogni mattina sceglie la cassetta giusta da mettere al momento giusto – deliziandoci con canzoni rock anni Sessanta e Settanta sulle quali io stessa ho iniziato a costruire la mia personalità quando ero adolescente –, mettendo in ogni azione che compie una cura estrema e una passione immutabile, che forse nella vita potrò solo sognarmi. 

Kôji Yakusho e Arisa Nakano in “Perfect Days” di Wim Wenders (Credits: DCM).

Ogni sera legge un libro, ogni pausa pranzo fotografa con la sua macchina analogica le chiome degli alberi, ogni giorno torna a casa e si dirige ai bagni pubblici del suo quartiere, ogni sera va a cena in un ristorante di noodles situato all’interno di una stazione metro, tranne la domenica, dove ogni settimana si gode qualche ora di sonno in più, porta il bucato in lavanderia, stampa le foto fatte e si delizia con un pasto in un ristorante diverso (ma che ovviamente è lo stesso ogni domenica da cinque anni). Hirayama è ben accolto da tutte le persone che hanno a che fare con lui, le sue connessioni riescono a essere profonde anche senza essere intime. Si comporta nello stesso modo con tutti, anche con chi non ha niente in comune con lui, come il giovane e fastidioso collega Takashi (Tokio Emoto), goffo, distratto ed estremamente iperattivo. In fondo, non tutti sono in grado di comprendere la poesia di vita dell’uomo. Ci riuscirà ad esempio Amy (Aoi Yamada), la ragazza faticosamente corteggiata da Takashi, nella quale nascerà una forte ammirazione quando Hirayama darà a loro un passaggio con il suo furgone, facendole così scoprire la musica di Patty Smith. Hirayama di lavoro pulisce i bagni pubblici, mestiere che potrebbe essere considerato da molti di poco valore, tuttavia Mama (Sayuri Ishikawa), la proprietaria del suo ristorante della domenica, lo chiama un uomo di cultura, e non è l’unica a pensarla così. 

Kôji Yakusho in “Perfect Days” di Wim Wenders (Credits: DCM).

Ci sarà solamente una persona, però, che riuscirà a movimentare la staticità della vita di Hirayama: sua nipote Niko (Arisa Nakano), che dopo una lite con la madre è scappata di casa ed è andata a rifugiarsi da lui. La vita va avanti apparentemente invariata ma con un’aggiunta di compagnia in più, grazie alla ragazza che si mostra interessata ai dettagli della vita dello zio. Questo perenne equilibro non viene mai rotto, se non quando Hirayama va a dormire, nel momento in cui i suoi sogni – mostrati allo spettatore grazie a sequenze in bianco e nero simili alle foto che lui stesso scatta – alludono a un passato più complicato. Scopriremo qualcosa in più al riguardo solamente quando la sorella arriva a riprendere la figlia con una macchina di lusso, vestita elegantemente, lasciandoci capire che quella che Perfect Days riproduce non è sempre stata la vita del nostro protagonista. Aspetto che va ricordato in quei momenti di questo film dove può capitare di pensare che tutto sia fin troppo pulito e dovuto. Intuiamo che gli eventuali cliché sono usati da Wenders per passare un messaggio: la ricerca del sè del suo protagonista è un percorso tutt’altro che casuale.

Kôji Yakusho in “Perfect Days” di Wim Wenders (Credits: DCM).

I giorni di Hirayama di fatto non sono perfetti, ma la bellezza del film sta proprio in questo. La capacità di sentirsi appagati della propria esistenza, del costruire una propria realtà e trovare pace in essa, non si può raggiungere senza compromessi. Seppur senza perdere mai la sua umanità, a tratti ci impressiona la sua tranquillità d’animo costante. La sensazione che fin da ultimo non esistano intoppi, allontana lo spettatore da lui. Per questo trovo il finale di Perfect Days estremamente potente: sulle note di Feeling Good di Nina Simone un primo piano di Hirayama, in silenzio come sempre, ci mostra per la prima volta la sua debolezza. In fondo, lui come noi, non è nient’altro che una persona che esiste, continuamente, in una sequenza sospesa tra rimanere e divenire. Da oggi, quando vivrò attimi di trascurabile felicità, penserò a Hirayama.

Giulia

Nouvelle Vague, arti visive e ramen istantaneo. Non mi piace parlare di me, ma mi piace parlare di film.

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