di pavel
Jessica Hausner non piomba giù dal cielo all’improvviso, né è il prodotto di una buona opera promozionale. C’è qualcosa di esegetico, però, e anche di misterioso, nella sua opera. Sabato scorso ero a Milano, la città che mi offre un menù infinito di retrospettive gustose e anteprime a prezzi stracciati, e nella #Soggettiva dedicata alla regista austriaca, ospitata al Cinema Godard di Fondazione Prada, è stato presentato l’ultimo lavoro in concorso per la Palma d’Oro, Club Zero. In sala è presente anche la firmataria, con la quale il curatore delle proiezioni, Paolo Moretti, si intrattiene in un botta e risposta talmente serrato che chiamarlo q&a mi sa un po’ di presa per il culo. È bello affermare uno spazio di confronto; sarebbe più bello se questo spazio esistesse davvero, però: le domande di Moretti si rispondono da sole, e Hausner offre giusto un contorno alle osservazioni del suo unico maître. Insomma, un movimento circolare.
Circolare è anche il cinema di questa autrice che, con Club Zero, firma la sua sesta regia da lungo. Hausner, che arriva al cinema come chi non riesce all’ingresso del test di medicina si iscrive ad infermieristica, mi appare come un enigma. Allure composta, sguardo vitreo, mano ferma e capelli di ghiaccio, la regista, con più di vent’anni di carriera alle spalle, è niente di meno che la figlia del capostipite del realismo psicanalitico germanico Rudolph Hausner, e ci racconta del suo desiderio, in adolescenza, di scrittura, ambizione ostacolata da un’approssimazione insufficiente delle parole alla realtà, anzi direi, alle realtà che ha sempre voluto rappresentare. Si congeda, prima dell’inizio della proiezione, augurandoci “Bon Appetit”, ma il dettaglio interessante è che il primo è molto più difficile da mandare giù rispetto all’antipasto.
Mia Wasikowska interpreta Miss Novak, una certa guru di tisane dimagranti, invitata dalla preside di una prestigiosa boarding school a tenere un corso sull’Alimentazione Consapevole. I partecipanti, un gruppo di sette adolescenti, si approcciano al corso opzionale per una varietà di intenti: chi per una coscientizzazione sul consumo alimentare, chi per raggiungere crediti sufficienti per fare domanda al college, chi per migliorare la propria linea, chi per mantenere il punteggio per la borsa di studio, and so on. Progressivamente, nell’arco evolutivo della narrazione, quello che si presenta come un corso di rieducazione alimentare finisce col diventare un’opera di manipolazione collettiva, rito iniziatico delle vittime allo sciopero della fame.
Paventando un’apocalisse imminente, tra false ontologie che ci vendono la nutrizione come uno spasmo, e la malafede delle industrie alimentari che vogliono intortare, nel vero senso della parola, la popolazione alla bulimia delle cibarie processate, Miss Novak, resa da un’indecifrabile Wasikowska, si presenta come portavoce di una comunità nascosta, invisibile ma numerosissima, immanente eppure impercettibile, nominata Club Zero: un’élite di persone che hanno la verità in tasca, e nel paradigma hausneriano, filtrato dalle parole della Messia della Moderazione e dei Fit-Tea, la verità è che in realtà mangiare è inutile; anzi, fa pure male.
Non è la prima volta che Hausner affronta temi che troviamo nella pellicola: dal grottesco lolitiano Lovely Rita (2001), che vede un’adolescente sui generis scontrarsi con una realtà che non la riceve, passando per Lourdes (2009), mockumentary cristiano su un gruppo di pellegrini alla ricerca disperata di una guarigione miracolosa, finendo con Little Joe (2019), dramma sci-fi che rivisita una morale hawthorniana attorno allo sviluppo in laboratorio di una pianta che rivela capacità terapeutiche sovrannaturali. Bioetica, sociologia delle masse, fede e religione: queste le salse onnipresenti nella poetica di Hausner, che declina le proprie indagini epistemologiche in una sequenza di taglieri costruzionisti, che rievocano, dallo spazio al colore, dalla mise-en-scène dei personaggi alla musica e, soprattutto all’assenza di musica, uno spazio vicino ma indefinito, approssimativo e periferico, come nella pittura metafisica di Morandi e De Chirico.
La regia meticolosa, l’impianto naturalista delle dinamiche ricordano i primi esperimenti di Haneke, mentre i temi e contenuti, insieme ai tempi comici, fanno l’occhiolino all’humour di Ostlund. Ma Hausner ha qualcosa in più e qualcosa in meno dei cineasti più amati dai festival europei degli ultimi trent’anni. Il suo occhio non cede mai all’intimismo narrativo e la sospensione del giudizio è ostacolata al pubblico dall’inverosimiglianza della realtà che ci serve, senza condimento, senza colore. È difficile empatizzare con il suo cinema, a differenza dell’autorialità femminile del cinema più in voga, eppure l’esperienza nutre interrogativi che invece di essere saziati, ad ogni istantanea successiva, scavano altri dubbi, ci affamano ancora di più.
Hausner ci presenta un piatto dall’aspetto delizioso, ma dalla consistenza ambigua: la complessità, dice Paolo Moretti, “è uno dei tratti più riconoscibili del suo cinema”. In chiusura del duello retorico, Hausner tiene a ribadire che ciò che vede nel film è “la paura, sempre presente, di un genitore di perdere il proprio bambino”: eppure afferma ciò che ‘vede’ nel film, non ciò che ‘crede’ del film. Visione e fede si intrecciano, sulla tela di un caleidoscopio multiprospettico, in progressione narrativa incalzante e descrizione antropica attuale, dove è possibile individuare un movimento equivoco: da un lato, una generazione alla ricerca di icone da imitare, movimenti a cui appartenere; dall’altro, una leader che non di meno, ha bisogno di essere divinizzata, riconosciuta dalla stessa comunità che le rende onore.
Il cinema di Hausner è una torta a più livelli, un semifreddo stratificato da gustare a diverse intensità, una complessa pietanza destrutturata. Contenitore del caos mondo dove ognuno può vederci quello che vuole, la regista austriaca (una Bilancia, tra l’altro!) col suo elegante gate-keeping intellettuale, contribuisce a condensare l’alone di mistero attorno le sue potenziali interpretazioni. Club Zero, mescolando paura, fede, obsolescenza, moda, mito, imitazione e algoritmi umani, crea un impasto di sociologia delle masse, steso su un letto asettico e spigoloso, servendoci una quiche che è la somma delle contraddizioni di un occidente post-ideologico proprio come quello che soffriamo. In uscita nelle sale italiane il prossimo 9 novembre, posso solo augurarmi che abbiate una certa fame, dato che è quasi pronto in tavola!