di virginia
Abbiamo scambiato due chiacchiere con i direttori artistici del Laterale Film Festival, rassegna non competitiva di cortometraggi sperimentali, che si terrà a Cosenza dal 1 al 3 settembre 2023.
Il Laterale Film Festival si contraddistingue per una selezione accurata di cortometraggi che – come anche suggerito dal titolo del festival – attraversano circuiti più marginali e laterali rispetto al grande pubblico. Da dove è nata l’idea del festival e come siete riusciti a costruire un’identità nel corso degli anni, in una scena cinematografica che per affermarsi tende sempre più a puntare sull’approvazione e il consenso di un pubblico di massa?
Mattia Biondi: Semplificando, potremmo dire che l’idea del festival nasce dal desiderio di correggere una stortura avvertita come inammissibile: la mancanza di uno spazio libero di condivisione nel quale valorizzare forme filmiche coraggiose e non classificabili. È stata proprio tale privazione a far scattare in noi il convincimento che fosse doveroso scendere in campo e attuare un rovesciamento di prospettiva: rendere fruibile in sala un cinema d’artista tendenzialmente fuori dai circuiti consueti. La scommessa del festival ha conquistato nel corso degli anni la fiducia di cineasti esordienti e affermati e la curiosità del pubblico. Difatti, Laterale rappresenta oggi un punto di riferimento importante per addetti ai lavori e non. Siamo costantemente impegnati nella promozione di quella sezione di produzione audiovisiva, imperfetta ma vivissima, che per ineludibile urgenza interiore resiste al decadimento contemporaneo. Essenzialmente, abbiamo costruito l’identità del festival grazie a un mirabile esercizio di ostinazione.
Quello che organizzate si presenta come un festival non competitivo, privo di categorie e con una sola selezione. Pensate che, in qualche modo, inserire un progetto artistico e cinematografico in una categoria possa limitarne il potenziale o “confinare” entro i limiti di un’etichetta qualcosa di più vasto e ampio?
Giulia Gaudioso: A nostro avviso, per gli obiettivi che ci proponiamo di perseguire, l’idea di festival competitivo e generalista risulta inadeguata e insufficiente. Pertanto, abbiamo scelto di adottare criteri di valutazione altri rispetto a quelli imposti dall’opportunismo imperante (grandi numeri, grandi storie, grandi temi). Operiamo nella convinzione che la qualità non sia misurabile, che l’attenzione e la cura riservata a ciascuna opera siano punti di forza irrinunciabili: i film al centro di tutto e nessuna competizione. Assegnare alla qualità della selezione la funzione di motore trainante dell’iniziativa significa consegnare al buio della sala cinematografica lavori altrimenti irreperibili, realizzati molto spesso lontano dal clamore mediatico. Abbiamo imparato che essere “periferici” equivale a essere nuovi rispetto a un “centro” statico in cui occorre mantenere posizioni consolidate.
Alcuni dei cortometraggi della scorsa selezione recuperavano la tecnica del found footage come tecnica narrativa e non solo documentaria, come siamo più abituati a conoscerla. Anche se questo espediente è stato conosciuto dal grande pubblico perlopiù con un genere cinematografico specifico – parlo a nome della mia generazione, cresciuta con Blair witch project (1999) – recentemente alcuni registi hanno deciso di sfruttarne le potenzialità. Dagli inizi del festival, avete visto un cambiamento in questo senso sulla scena cinematografica nazionale e non?
Mattia Fiorino: Affrontiamo innanzitutto una questione terminologica: il found footage è letteralmente un filmato ritrovato, e ciò indica comunemente quei film che sono proposti come “onesta” presentazione di un girato già esistente. The Blair Witch Project ne è l’esempio più famoso, infatti. Opere di questo tipo, nelle nostre edizioni passate, non sono state proposte in questi termini: le immagini di film come L’incanto (Chiara Caterina), Seasons/Patterns (James Edmonds) o 3 Dreams of Horses (Mike Hoolboom) non sono immagini presentate come documenti ritrovati né hanno una funzione narrativa (com’è generalmente intesa): sono immagini cercate e/o trovate che vengono utilizzate come materiale compositivo. In questo senso siamo più vicini a un’attività di collage che di cronaca; è più musica che filologia.
Quando un filmato viene riutilizzato in questo modo assume una valenza del tutto nuova perché astratto dalla sua origine; inizia a relazionarsi con le immagini precedenti e con quelle successive generando nuovo significato, come colori della tavolozza di un pittore. È come nella musica di certi compositori (viene subito in mente il compianto Ryūichi Sakamoto, scomparso da poco) che utilizzano suoni registrati all’aperto per i loro brani: il suono di passi sulle foglie non è più suono di passi sulle foglie – è melodia.
La sfida più grande che affrontano i filmmaker, in questo senso, non è quella di sfruttarne le potenzialità (grandi maestri come Brakhage, Marker, Baruchello lavoravano con questa tecnica già dagli anni ‘60) quanto quella di restituire un sentimento di verginità dell’occhio con immagini che sempre più lo soffocano. La principale evidenza è proprio questa scarsa attenzione nei confronti della relazione rigenerante che è forse la vera essenza di questo cinema. Mallarmé scriveva che bisogna «dare al linguaggio tribale un senso più puro» [donner un sens plus pur aux mots de la tribu], bisogna sottrarre l’immagine alla vista e ripresentarla come oggetto imprescindibile di un nuovo orizzonte – fornirle una proprietà ritentiva. Al proliferare incessante di film fatti di film si oppone, da parte di certi filmmaker, un atto di incastro che sembra mostrare per la prima volta un viso, un oggetto, un gesto, un suono.
È di pertinenza dei poeti lavorare in questi termini: Brodskij diceva che «La poesia purifica la lingua […]. È uno straordinario acceleratore mentale. […] Sintetizza […] una gran quantità di materiale razionale e irrazionale». Non è solo un lavoro di forma, quello di chi decide di fare film coi film, è un lavoro di economia linguistica e compressione estetica, di lotta alla sovrabbondanza. Forse è per questo che, di anno in anno, diventa sempre più difficile guardare questi film e avere la sensazione che quel viso quell’oggetto quel gesto quel suono non siano l’ennesimo viso oggetto gesto suono…
Come si legge dal manifesto, il festival valorizza opere e lavori di studenti e registi indipendenti. In un mondo in cui viene sempre più richiesto a giovani filmmakers di adeguarsi alla legge del mercato e a canoni pre-esistenti nella realizzazione di opere cinematografiche, quale pensate possa essere una soluzione per mantenere la propria identità e perseguire un’idea di ricerca artistica?
Mattia Leo: È necessario un cambio di paradigma. La nostra civiltà è cresciuta alla rovescia, bisogna quindi risalire le radici, controcorrente. Allora il filmmaker (giovane o meno giovane: cosa sono gli anni per un buco nero?) vive e compone nel rifiuto. “Servono budget corposi e produttori per creare un film; l’arte è tale se genera reddito; dalla durata distinguiamo corti, medi e lungometraggi; dov’è la trama?; qual è la storia?; e gli attori?”. Invece il dissidente con la camera negli occhi dice: “esistono film no-budget e sono vivi; un filmmaker può fare a meno di tutto, persino della cinepresa; d’altronde Bresson scrive: la capacità di servirmi bene dei miei mezzi si riduce quando cresce il loro numero; un film è tale in quanto tale e non accetta distinzioni di durata e genere, così come un solo verso può costituire una poesia; la storia è in ogni cosa, ma la trama è il tarlo di chi crede in una provvidenza; non dimentichiamo, poi: così come le rocce, alcuni film non vengono pensati per il genere umano”.
La call for entries per l’edizione 2023 del Laterale Film Festival è stata prorogata fino al 31 maggio. Per partecipare e inviare il tuo progetto, trovi tutte le informazioni qui.
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