a cura di collettivo corpi dal margine
Cassie (Carey Mulligan) ha circa trent’anni, vive con i suoi genitori. Ha abbandonato gli studi di medicina – e quindi una carriera piena di successi, coerentemente con ciò che ci si aspetterebbe dal cliché della classica “ragazza in gamba” – per lavorare in una caffetteria della città in cui vive. Trascorre la maggior parte delle sue notti fuori casa e non sembra avere uno scopo nella vita, nonostante abbia raggiunto un’età in cui, secondo i dettami della società odierna, dovrebbe avere almeno un minimo di idee chiare.

Tutti i dubbi sul comportamento di Cassie, tutte le domande che anche lo spettatore si pone sulle scelte che la donna ha compiuto vengono esemplificati dal personaggio di Ryan (Bo Burnham): ex compagno universitario della protagonista, si domanda perché, mentre lui è diventato un chirurgo di successo, lei abbia abbandonato gli studi. A partire da questo incontro si scoprirà presto che i motivi che portano una persona a compiere determinate scelte non sono, spesso, così manifesti e che anche dietro le migliori apparenze possono nascondersi i peggiori segreti.

La visione di questo film ha scaturito in noi delle riflessioni elaborate da un punto di vista femminista ed abbiamo deciso di confrontarci per approfondirle insieme a due espert dell’ambiente cinematografico contemporaneo, Attilio Palmieri ed Eugenia Fattori, a cui abbiamo posto alcune domande.

Abbiamo trovato molto interessante il ribaltamento dello sguardo che Fennell porta avanti nel corso della sua pellicola, utilizzando uno sguardo che potremmo definire “femminile” – contrariamente a quello che avviene solitamente nelle pellicole che si basano sullo sguardo maschile, “male gaze”. Un esempio è il rispetto che l’autrice pone nei riguardi dei corpi femminili su cui la telecamera non indugia mai in modo morboso riprendendo parti come seno o natiche. Grazie al modus operandi di Fennel viene evitata una sessualizzazione scontata e violenta a cui siamo sempre invece sottopost durante la visione della maggior parte dei film con personagge femminili.

Anche dal punto di vista linguistico, Fennell usa un registro narrativo che va oltre gli stereotipi. Non c’è morbosità nel racconto della storia, come solitamente accade quando ad essere trattato è il tema della violenza in generale – sessuale, in particolare. Non vi sono mai scene esplicite legate alla violenza sessuale; gli spettator non vedono niente, ma riescono solo a sentire l’audio che diviene centrale ed estremamente potente. Fennel con la sua pellicola ci sta aiutando a trovare una lente diversa per indagare il reale.

Abbiamo chiesto quindi a Palmieri una riflessione sul male gaze, fenomeno dilagante nella cinematografia, anche contemporanea, e su quali fossero le sue maggiori manifestazioni e come allenarsi a riconoscerlo.
“Quasi tutto ciò che fruiamo è influenzato dallo sguardo maschile, perché anni di prodotti audiovisivi, scritti, diretti, interpretati dai maschi hanno definito uno standard pervasivo e radicato, tanto che a lungo è stato difficile riconoscerne la problematicità. Da qualche anno, però, abbiamo la possibilità di riconoscere il male gaze per contrasto, grazie a film e serie televisive realizzate da donne e con uno spiccato sguardo politico (inteso in senso molto ampio): I Love Dick, Crazy Ex-Girlfriend e Lady Bird sono casi esemplari che dimostrano che un altro modo di raccontare è possibile. Più in generale, per decenni le storie al cinema e in televisione hanno visto quasi sempre gli uomini come soggetto e le donne come oggetto, con queste ultime che, anche quando protagoniste, sono state spesso raccontate attraverso lo sguardo rapace di sceneggiatori e registi che perpetravano questa oggettificazione proiettando una loro fantasia assai distante dalla realtà”.

Hollywood, come ogni centro della cinematografia mondiale, vive di film di registi, sceneggiatori e produttori maschi, soprattutto bianchi, cisgender ed eterosessuali. Noi tutt però ben sappiamo che questa non è e non può essere la norma, ma anzi che, al contrario, esistono moltissime pellicole spesso snobbate solo perché portano la firma di una donna. Abbiamo chiesto ad un’esperta del settore, Eugenia Raffaella, il motivo per cui un intero mondo disegnato dal femminile viene ignorato, se non screditato dal mondo della cinematografia.

“In generale, l’arte prodotta da donne è spesso passata in secondo piano sia per ragioni storiche (banalmente, i ruoli di genere patriarcali hanno reso più difficile per le donne affermarsi come artiste), storiografiche (la prospettiva maschile ha privilegiato la trasmissione delle opere che sposavano la stessa prospettiva) ma soprattutto strutturali. Negli anni del cinema muto erano molte le donne potenti a Hollywood e altrove, ma nel momento in cui il cinema è diventato un’industria remunerativa, progressivamente i posti di potere sono andati prevalentemente agli uomini, compresi quelli di critica, o al massimo a donne particolarmente privilegiate e/o pronte ad accettare le dinamiche patriarcali. La male glance, ovvero, la tendenza a ignorare i prodotti della creatività delle donne (ma lo stesso vale per la creatività di qualsiasi categoria marginalizzata) è controparte fondamentale della male gaze in questo senso: non solo lo sguardo maschile oggettifica, ma anche grazie al proprio potere “passa sopra” a qualsiasi cosa non prodotta da e per maschi bianchi cishet, in quanto “non universale” e che quindi viene più facilmente lasciata fuori da libri, articoli e teorizzazioni”.

Altra cosa fondamentale che ci ha colpito particolarmente durante la visione del film è stata la colonna sonora: un insieme di cover e canzoni pop tipicamente relegate alle “cose da femmina”. L’abbiamo trovata strettamente connessa alla rivendicazione del female gaze che questa pellicola agisce.
“Sì, la scelta di convocare riferimenti tipici dell’universo femminile, come un certo tipo di musica e generi cinematografici – come, ad esempio, la commedia romantica – rappresenta una scelta consapevole che vuole, appunto, orientare lo stile del film a partire da uno sguardo femminile. Non solo: decidere di utilizzare un’estetica fatta di colori pastello e alcuni specifici trope, luoghi comuni narrativi, per raccontare una storia di oppressione di genere, di violenza e vendetta significa anche dare serietà a un certo tipo di linguaggio, che da sempre è stato associato non solo al femminile ma anche, in maniera misogina, alla superficialità e alla frivolezza”.
Chi sono Attilio ed Eugenia:
Attilio Palmieri (Napoli, 1987) è Dottore di Ricerca in Arti Visive, Performative e Mediali presso l’Università di Bologna e si occupa di serialità televisiva e di cinema in ambito accademico e critico. Collabora con Segnocinema, Style Magazine, Best Movie.
Eugenia Fattori, critica di cinema e televisione, ha scritto per Marie Claire, Esquire, Seriangolo e contribuito ai saggi L’arrivo del lupo. Netflix e la nuova tv, Nel labirinto di Westworld e Queer Gaze. Ha co-diretto il programma radio Serial K ed è co-creatrice dei podcast “Tutte col Tutù” e “Le 16 Candeline”.