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Di che cosa parliamo, quando parliamo di “Bones and All”? Abbiamo provato a mettere insieme, in questa sorta di tavola rotonda, pensieri, parole, opere, omissioni e tutto quello che ci è passato per la testa durante (e dopo) la visione del film. Prendete sul serio queste nostre parole, ma con moderazione.

“Bones and All” di Luca Guadagnino (Credits: Metro Goldwyn Mayer Pictures)

virginia

Bones and All è bello ma non bellissimo. Probabilmente è anche colpa delle aspettative (esageratamente) alte che avevo per questo film se, poi alla fine, non l’ho apprezzato come avrei voluto. O forse è colpa della confusione che ha invaso Milano in occasione dell’anteprima nazionale alla presenza del cast. Forse, semplicemente, non è la mia tazza di tè, come direbbero gli anglosassoni. Chissà. Ciò che, però, mi ha sconvolto più di ogni altra cosa è stata l’accoglienza positiva riservata al film a Venezia: chiamatemi retro (ok, per non dire vecchia) ma ero rimasta ai tempi in cui A Bigger Splash veniva prepotentemente fischiato in proiezione stampa sul Lido e Guadagnino decideva di portare il suo Call me by your name alla Berlinale. Quest’anno, invece, si è pure portato a casa un premio, mica poco. Ma torniamo al film: è bello ma non bellissimo, funziona alla grande, gli attori sono fantastici (non tanto Taylor Russell e Timothée Chalamet, quanto piuttosto la “versione cattiva” di Michael Stuhlbarg e Mark Rylance, i cui personaggi, anche se per pochi minuti, costituiscono la vera cifra horror del film), eppure non mi ha convinta fino in fondo. Salvo alcune scene che, forse, potevano essere tagliate (sì, mi riferisco a Chalamet che salta e balla su canzone dei Kiss, dico, ce n’era davvero bisogno?), con buona pace di Francesca Scorsese, il cui personaggio è stato completamente eliminato dal montaggio finale, non c’è davvero niente che, sulla carta, non funzioni. Il film – come qualsiasi altro di Guadagnino – è ipercurato e delicatissimo ma, dopo più di due ore, viene da chiedersi che cosa Bones and All abbia davvero voluto raccontare. Ci troviamo davanti a un road movie? A un coming-of-age? A un dramma romantico? Oppure si tratta di un horror? Difficile rispondere, dato che tutto risulta troppo debole e sfumato per essere incasellato in uno di questi generi. E non è che sia difficile dare un’etichetta alla pellicola perchè riesce a passare con disinvoltura da una categoria all’altra, anzi, i pochi elementi di genere che sono inseriti restano sempre troppo isolati, e tutto si risolve in un’accozzaglia sconclusionata. Anche le scene più gore hanno una certa eleganza, ma forse un po’ troppo fine a se stessa. Per essere una storia d’amore abbiamo già Call me by your name e per essere un film horror abbiamo già il remake di Suspiria: Bones and All rimane a metà tra questi due illustri precedenti e, purtroppo, nel confronto che inevitabilmente viene da fare, finisce per soccombere. Una lancia a favore di questo film, però, la devo spezzare: finalmente troviamo un uso degno di Atmosphere dei Joy Division come sottofondo a una scena felice, non come nella conclusione triste che Corbijn aveva dato al suo Control.

Bones and All
“Bones and All” di Luca Guadagnino (Credits: Metro Goldwyn Mayer Pictures)

giulia

Il problema di Bones and All è che non ci sono problemi. Luca Guadagnino ancora una volta ci ha regalato un prodotto degno del suo nome. Ci troviamo davanti a “proprio un bel film”: un’incredibile fotografia, una trama horror che riesce ad essere brutale e al tempo stesso delicata, una fortissima performance di Taylor Russell (che da adesso aspetterò con ansia di vedere nei suoi futuri progetti), un’ennesima dimostrazione dell’abilità di Timothée Chalamet nel riuscire sempre a cogliere la dimensione giusta del suo personaggio (qui perfetto nel non risultare il protagonista che da lui ci aspettiamo ma piuttosto l’appoggio alla figura di Maren – nonostante l’hype per il film partito, e non possiamo negarlo, grazie alla sue presenza nel cast e alla curiosità di poterlo vedere di nuovo a lavoro con Guadagnino). Per continuare, un’indovinata colonna sonora, un gruppo di notevoli attori anche per tutti i ruoli minori, una storia che sembra non avere particolari intoppi. Allora, cosa manca? Un generale desiderio di qualcosa di più è nato in me sin da subito dopo i titoli di coda. Bones and All è “proprio un bel film”, che mi è piaciuto in tutto, ma che non ho amato.  Speravo in un film che mi tenesse sveglia per giorni, e invece quella sera, paradossalmente, mi sono addormentata pensando ad altro. Per finire – e fermate la vostra lettura se non volete imbattervi in un grande spoiler – in linea generale ho apprezzato molto il finale, ma anch’esso mi ha lasciata insoddisfatta, proprio quando Chalamet pronuncia la sua ultima battuta: “eat me Maren”. Ecco, Luca, come hai potuto farti scappare l’occasione di concludere il tuo film con “eat me Maren, Bones and All”.

Bones and All
“Bones and All” di Luca Guadagnino (Credits: Metro Goldwyn Mayer Pictures)

emma

Di recente mi è capitato di leggere alcune interpretazioni di Bones & All che consideravano il cannibalismo come un equivalente della tossicodipendenza – paragone che viene esplicitato anche all’interno del film durante un discorso del personaggio interpretato da Michael Stuhlbarg. Maren e Lee di fatto somigliano a tossicodipendenti nel loro vivere ai margini della società e nella ricerca costante di mezzi per soddisfare le proprie esigenze. Tuttavia, i due fenomeni non coincidono appieno: il bisogno di consumare carne umana è infatti presentato – e da alcuni personaggi anche descritto – come un qualcosa di naturale e insito negli eaters. Tra gli incontri fatti da Maren, a turbarla di più è appunto quello con un cannibale che però non è eater per natura: la sua reazione è dapprima incredula, poi si trasforma in vera e propria rabbia, data dal non riuscire a concepire la volontà di compiere azioni simili senza essere spinti da una necessità profonda. Nel film, la rappresentazione della “naturalità” del cannibalismo comprende anche una sua innegabile componente sensuale, data dal sovrapporsi dell’attrazione fisica al desiderio primitivo di nutrirsi. Infatti, nonostante Maren e Lee si dedichino ad una sorta di “cannibalismo etico” (ovvero scelgano di consumare solo persone da loro considerate “cattive” e senza una famiglia alle spalle), è inevitabile che l’avvicinarsi alla vittima avvenga spesso tramite la seduzione – che, tra l’altro, non è necessariamente eteronormativa: basti pensare alla prima scena di cannibalismo presente nel film, in cui Maren è sdraiata accanto ad una compagna di liceo e compie dei gesti chiaramente interpretabili come romantici – prima di addentarle un dito. La dimensione del desiderio non è estranea neanche alla relazione tra Maren e Lee: si innamorano in modo graduale, del tutto semplice – come se anche l’amore fosse un in un certo senso un istinto di sopravvivenza. Il loro legame è cementato dal condividere non solo la stessa natura ma anche il terrore di che cosa essa possa significare per le persone a loro care: infatti, entrambi provengono da famiglie in cui la mostruosità ha sempre prevalso sull’amore.   A me piace pensare che nella storia di Maren e Lee sia il secondo, alla fine, a prevalere – e che anche il suo epilogo sia soltanto un gesto estremo d’amore.    

Bones and All
“Bones and All” di Luca Guadagnino (Credits: Metro Goldwyn Mayer Pictures)

pavel

Bones and All. Se il titolo vi sembra approssimativo, non vi preoccupate: rispecchia un po’ il contenuto del film. Coming-of-age a tinte orrorifiche firmato dal più esteta autorizzato dai Grandi Festivals, il suo ultimo lavoro si pone come intermezzo tra un tentativo di ricontestualizzazione dell’universo immaginifico sancito da Kerouac e i classici del subgenre On the road statunitense in un’era di generazioni pasciute a licantropi e cannibali, e un Fashion Short Film diretto da Nicholas Winding Refn. Guadagnino dimostra di conoscere bene le immagini del cinema nordamericano più indie, e quindi ci seduce con un’opera dall’ambizione Beat, con sangue, ferri vecchi, unghie nere e lunghe, troppo lunghe guide su pickup. Il problema è che le immagini dovrebbero raccontare qualcosa, e questo il nostro Luca lo avrebbe dovuto imparare quando si è laureato in critica cinematografica al Das della Sapienza. Una fotografia impreziosita non aiuta una sinossi prevedibile e una narrazione stomachevole, e la superficialità della scrittura non è dissimulata da una colonna sonora fiacca (un continuo assolo di chitarra degno di una qualsiasi canzone dei Kings of Leon, forse Reznor e Ross sono stati pagati con i soldi della regione Lombardia). In un Midwest imprecisato tra anni Ottanta e Novanta, dove la benzina parrebbe costare ancor meno della Coca-Cola, dove il peso della segregazione razziale non è percepito e dove mangiare carne umana ai tempi dell’Aids non è un problema, il regista-convertito-visual artist di Ferragamo sa benissimo di non sapere cosa stia facendo: e non se ne vergogna nemmeno. Se con Suspiria avevo raccolto qualche speranza in un suo rinnovamento, con Bones and All credo che il trasloco in Padania sia stato per lui un po’ come è stato il confino per Carlo Levi, con la differenza che dal soggiorno di quest’ultimo qualcosa di carino ne è uscito. Tutta fuffa e niente arrosto, anzi, qui dovrei dire sanguinaccio, ‘sto cumulo di ossa e altro è un agghiacciante manierismo visuale che conferma la scarsa capacità comunicativa dei membri della giuria di Venezia. Non che Guadagnino sia un demente, per carità: di film carini ne ha fatti, ma questo giusto il premio del pubblico al Giffoni meritava. Quello che mi rassicura è che non è un prodotto lezioso, la scrittura così scarna non richiede attori capaci di assimilarla, tale che le interpretazioni di Russell e Chalamet eguagliano la cifra del film: sottotono. Un portentoso Mark Rylance è quello che mi resta di questo spot da 130 minuti, i ruoli di genere invertiti non sono sufficienti ad appassionare, la storia si rivela via via sempre più banale e mood boards di questo genere trovano sceneggiatori migliori alla CW o da Ryan Murphy. Quando rimangono Ossa e Altro, solitamente significa che qualcosa è stato rosicchiato: a me sembra, invece, che mi abbiano servito un piatto vuoto.

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