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di virginia

TW: violenza, omicidio, suicidio.

Negli ultimi tempi si è sentito parlare molto di serie tv a tema true crime grazie al (non così inaspettato) successo di Dahmer, serie scritta da Ryan Murphy e Ian Brennan e interpretata da Evan Peters. La miniserie, prodotta da Netflix, è arrivata a raggiungere un altissimo numero di spettatori in un arco di tempo piuttosto ristretto: solo nella seconda settimana dalla sua uscita su piattaforma contava quasi 300 milioni di spettatori. Com’era prevedibile, un successo di questa portata ha creato un dibattito tra il pubblico, che si è prontamente schierato in due fazioni separate: quella di chi sostiene che, in qualche modo, la serie rispetti la storia raccontata e quella di chi, invece, si schiera contro un argomento del genere, tirando in ballo la sensibilità delle famiglie delle vittime. Non starò qui ad elencare tutti i motivi per cui, secondo la mia modesta opinione, la serie non funziona; avevo quattordici anni quando vidi per la prima volta American Horror Story e forse mi sono solo stancata di vedere Evan Peters interpretare questo tipo di ruolo. 

Jonathan Groff e Hold McCallany in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

Insomma, tutti hanno visto Dahmer. Per questo motivo dobbiamo parlare di Mindhunter. Come spesso succede per le serie tv – non riesco mai a guardarne una che abbia più di due stagioni – sono arrivata tardi alla festa di Mindhunter, avendola vista per la prima volta due anni fa. Mi ricordo che, mentre il primo episodio scorreva, non mi capacitavo di quanto il regista, i creatori della serie, fossero riusciti a imitare anche solo l’atmosfera che David Fincher aveva creato in Zodiac (2007). Qualsiasi cosa mi ricordava quel film: il costante buio, un giovane agente di polizia protagonista, l’ambientazione anni Settanta ricostruita in ogni minimo dettaglio. Al termine dell’episodio – che comunque dura un’ora – ero ormai entrata nel vivo della storia: Netflix se ne era accorto e aveva fatto partire automaticamente l’episodio successivo, senza far scorrere i titoli di coda. Interrompo il secondo episodio a metà per andare a cercare chi avesse realizzato questa serie. Se mi sono sentita stupida, anche solo per aver saltato in modo automatico le sigle di tutti gli episodi, dove ci sono elencati tutti i crediti? Sì, ma almeno tutto tornava. Ho deciso di riguardarla adesso per non restare con l’amaro in bocca dopo Dahmer e per fare di nuovo pace con il genere del true crime.

Jonathan Groff in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

Spesso pubblicizzata come “la serie di David Fincher”, in realtà Mindhunter è stata ideata da Joe Penhall, che ha tratto l’idea dall’omonimo libro Mindhunter: Inside the FBI’s Elite Serial Crime Unit, scritto da John E. Douglas e Mark Olshaker, due agenti dell’FBI. Fincher, comunque, accreditato come produttore della serie, ha diretto alcuni episodi sporadici sia della prima che della seconda stagione. La leggenda vuole che Charlize Theron (anche lei produttrice della serie) abbia consigliato al regista la lettura del libro scritto dai due agenti per tirarne fuori un prodotto televisivo. Questo succedeva nel 2009, quando ancora Fincher non era granché abituato a lavorare in televisione; qualche anno e stagione di House of Cards dopo lo hanno convinto a portare avanti il progetto proposto dall’attrice e produttrice.

Jonathan Groff e Holt McCallany in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

La storia segue principalmente le vicende di Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany), due agenti speciali dell’FBI impegnati a portare avanti una ricerca all’interno della sezione di scienze comportamentali (Behavioral Science Unit). In questa ricerca, che li vede occupati nell’intervistare efferati criminali – ancora, all’epoca, non esisteva il termine serial killer e la serie fa intendere chiaramente che la nascita, l’uso e l’applicazione derivano proprio da questo contesto – vengono affiancati dalla professoressa Wendy Carr (Anna Torv), insegnante di psicologia alla Boston University. Holden e Bill, dopo aver affrontato una serie di ostacoli da parte del loro supervisore, Robert Shepard (Cotter Smith), che ancora non riesce a dare piena fiducia alle idee – e soprattutto all’istinto – dei due agenti, riescono a montare su un’unità speciale incaricata di incontrare i principali serial killer dell’epoca (passano da Ed Kemper a Jerry Brudos) per riuscire a capire quali sono i motivi che portano una persona ad uccidere violentemente altre persone. Nel primo episodio, nell’apertura della serie, Holden ascolta per caso uno stralcio di lezione all’interno del campo base dell’FBI, a Quantico, dove vengono allenati i giovani studenti a diventare agenti speciali. Il professore chiede ai ragazzi che atteggiamento bisogna tenere quando il motivo di un’azione violenta diventa sfuggente. L’FBI ha, per molto tempo, dato la caccia a criminali che dichiaravano apertamente i loro intenti: John Dillinger, Baby Face Nelson, Machine Gun Kelly, tutti questi assassini avevano un obiettivo, uno scopo in comune, quello di dare uno schiaffo alla polizia ed alla società in cui vivevano. Come bisogna comportarsi, però, quando dietro ad un omicidio, non esiste nessun apparente motivo? Da questo interrogativo senza risposta, Holden inizia a raccogliere quante più informazioni possibili per cercare di dare, anche in modo parziale, una spiegazione a questo tipo di atteggiamento.

Cameron Britton e Jonathan Groff in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

Holden è un giovane agente, ha ventinove anni ed è reduce dal suo primo fallimento “sul campo”. Addetto alla negoziazione per la liberazione di ostaggi, non riesce a portare a termine la sua missione ed evitare che il criminale con cui sta negoziando la liberazione delle persone che tiene imprigionate commetta suicidio davanti ai suoi occhi. In seguito a questo avvenimento, il suo lavoro viene ridimensionato e, tolto dal campo, viene ricollocato al chiuso, nella sicurezza delle aule del campo base, ad insegnare la materia. Entra a far parte di un programma per istruire agenti di polizia locali sul comportamento migliore da tenere in situazioni del genere ed è qui che conosce Bill. Holden e Bill, come il personaggio del detective Roy Carver (Peter Murnik) non manca di sottolineare, ricordano due moderni Sherlock Holmes e Dr. Watson: girano l’America in cerca di indizi per ricostruire la scena del crimine e, in ultima analisi, trovare il colpevole. I due chiedono aiuto alla professoressa Wendy Carr, che da anni si occupa di studiare casi di omicidi provocati da psicopatici e sociopatici; Wendy, pur prevedendo un grande futuro per il progetto, in prima battuta è diffidente sull’entrare a far parte di una squadra dell’FBI. Inizialmente come consulente e, in un secondo momento, come parte dell’unità, fornisce approfondimenti e spunti per le interviste che i due agenti dovranno andare a realizzare nelle prigioni più note degli Stati Uniti.

Jonathan Groff e Holt McCallany in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

Nel momento in cui i due chiedono l’aiuto della professoressa Carr, Wendy afferma di avere fiducia nelle persone folli, folli al punto tale da seguire il proprio istinto e combattere per ciò che sembra loro giusto. Questa dichiarazione stona con i soggetti a cui è rivolta: Holden e Bill non potrebbero essere due persone più convenzionali e, se vogliamo, anonime di così. Per quanto all’avanguardia potesse essere la loro proposta, sicuramente qui non viene riproposto lo stereotipo del genio “folle” ed impreso che incontra una serie di difficoltà per far capire la propria visione a chi gli sta intorno. Sono persone normalissime che hanno percorso il classico cursus honorum che ci si potrebbe aspettare da chi fa carriera negli Stati Uniti di fine anni Settanta: maschi bianchi provenienti da famiglie borghesi che hanno ricevuto una buona istruzione al college. L’uno, nonostante la giovane età, indossa solo giacca e cravatta per inserirsi meglio nel contesto lavorativo, l’altro deve far fronte ad un matrimonio che si sta sgretolando ed un figlio per cui vale la pena far finta di niente e nascondere i problemi coniugali sotto al tappeto.

Anna Torv in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

L’apparente normalità dei personaggi – ammesso che questo termine abbia un significato preciso, chi possiamo definire “normale”? Chi stabilisce un valore del genere? – è sicuramente uno dei temi centrali della serie. Forse, più che normalità, dovremmo parlare di “convenzionalità” e di aderenza a ciò che, dalla nostra società, è moralmente accettabile o meno. Come già detto, Holden, Bill e Wendy sono tre persone che svolgono il proprio lavoro con diligenza, e ognuno di loro ha una relazione sentimentale. Insieme alle vicende professionali dei personaggi, che vanno a costituire la principale trama della serie, si intersecano tutta un’altra serie di racconti che riguardano le loro vite personali. Viene lasciato maggiore spazio alla vita sentimentale di Holden, ma si aprono anche squarci su quella di Bill e Wendy. Come ci si può immaginare, il continuo e prolungato contatto con serial killer a cui è stata diagnosticata una forma di sociopatia o psicopatia ha ripercussioni anche sulla vita privata di agenti dell’FBI, per quanto intangibili possano sembrare. Tutte le regole in fatto di obiettività e oggettività vengono a cadere: durante queste interviste Holden (più che Bill, che rimane scettico fino alla fine sul metodo adottato dal collega più giovane) cerca di entrare nella mente del soggetto intervistato. Inizia a imitare il modo di parlare di Richard Speck, contravvenendo a ogni forma di protocollo, fino ad arrivare a fare proprie alcune frasi pronunciate, nel corso di un’intervista, da Ed Kemper.

Jonathan Groff in Mindhunter
Holt McCallany e Anna Torv in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

Quello che emerge, da queste interviste, è che un serial killer corrisponde al profilo di quella che si può considerare una “persona normale” fino al momento in cui non avviene un evento che scatena qualcosa nella sua mente, che tocca certi tasti che prima non erano mai stati toccati. Viene da chiedersi, progressivamente nel corso della storia, fino a che punto è possibile rimanere sé stessi stando a contatto ogni giorno con persone prive di ogni forma di empatia e che sono arrivate a compiere gesti del genere. Holden sembra essere entrato perfettamente in questo meccanismo: come sottolinea Wendy, nel momento in cui si stabilisce un rapporto con una persona psicopatica, cediamo una parte del nostro essere per proteggere ciò che siamo veramente. Tutte le emozioni sono simulate in un gioco di corrispondenze e di finta empatia, ma, tutto questo, inevitabilmente, ha un costo. Se la serie si apre con un grande fallimento lavorativo – e quindi personale – per Holden, la stessa sembra concludersi nel migliore dei modi per il personaggio protagonista: il giovane agente riesce, con quanto studiato fino a quel punto, a far confessare un omicidio e, quindi, a risolvere un caso esclusivamente affidandosi alle sue conoscenze e ai suoi studi. Diventa l’eroe della piccola cittadina della Georgia rurale in cui si era consumato il reato e, finalmente, nonostante i suoi metodi poco ortodossi, arriva un riconoscimento sul piano lavorativo.

Jonathan Groff in Mindhunter
Jonathan Groff e Happy Anderson in “Mindhunter” (Credits: IMDb)

Nel frattempo, però, piano piano, tutto ciò che ha costruito all’interno dell’unità di scienze comportamentali e nella sua vita personale sembra andare in frantumi. Viene lasciato dalla sua ragazza, Debbie (Hannah Gross), che lo accusa di pensare solo al lavoro; si ritrova indagato per aver nascosto una registrazione-testimonianza dei suoi metodi non approvati dal supervisore Shepard e Bill e Wendy iniziano a dargli contro per aver rilasciato alcune compromettenti dichiarazioni alla stampa, che potrebbero togliere fondi al progetto e quindi decretarne l’interruzione. Tutto precipita davanti agli occhi di Holden, che fino ad un momento prima era stato celebrato come un eroe della giustizia e della legge. In questo stato, riceve una telefonata da parte di un ospedale della California: l’operatrice al telefono dichiara di averlo contattato in quanto unico parente e contatto stretto del paziente in cura presso la struttura. Si tratta di Ed Kemper, noto come “Coed Killer”, che in un disperato tentativo di attirare l’attenzione di Holden, prova a togliersi la vita. Kemper è stata la prima persona ad essere intervistata da Holden, il soggetto che ha dato il via al progetto per delineare i tratti comuni di un serial killer. In un certo senso, costituisce non solo l’avvio di quello che sembra essere uno dei più promettenti studi dell’unità di scienze comportamentali, ma anche una sorta di gratificazione per il personaggio, considerando ciò che l’intervista ha fatto per la sua carriera lavorativa. Holden si reca quindi in ospedale a visitare Kemper, ma è solo quando il killer abbraccia Holden che anche lo spettatore si rende conto della scelta a dir poco bizzarra dell’agente. Dal punto di vista personale e lavorativo ha accumulato in pochissimo tempo una serie di delusioni e com’è possibile che la prima cosa a venirgli in mente per sopperire a questi fallimenti sia visitare qualcuno che ha ucciso dieci persone?

Jonathan Groff in Mindhunter
Jonathan Groff e Holt McCallany in “Mindhunter” (Credits: Netflix)

Questa manifestazione di affetto – quanto sincera sia, non è dato saperlo – si configura come l’evento che scatenerà un violento attacco di panico a Holden. In uno dei primi episodi della prima stagione, l’agente si trova davanti ad un gruppo di poliziotti locali per spiegare il modus operandi di Charles Manson. Dopo aver raccontato l’intera infanzia del criminale, costellata da attenzioni mancate e violenze da parte dei suoi stessi genitori, pone una domanda retorica al suo pubblico: viste le condizioni in cui Manson è cresciuto, non dobbiamo chiederci come sia riuscito a fare quello che ha fatto, ma come non siamo riusciti a prevedere che avrebbe commesso qualcosa del genere. La stessa domanda ritorna (in modo implicito) allo spettatore, al termine della prima stagione: considerando tutte le interviste che ha condotto Holden e il modo in cui le ha affrontate, come è possibile che sia ancora in piedi?

Jonathan Groff in Mindhunter
Jonathan Groff in “Mindhunter” (Credits: Netflix)

L’ultimo episodio della prima stagione, riassumibile nella locuzione the rise and fall of Holden Ford,[1] vista la rapida ascesa al successo e un’altrettanto rapida caduta, pone una serie di domande che lo spettatore non può fare a meno di rivolgere anche a sé stesso. Da spettatori, guardando la serie, ci siamo appassionati alle vicende dei due agenti, ma quante volte ci siamo ritrovati a trovare un nesso di causa ed effetto tra il vissuto di un serial killer e le sue azioni? Qui sta la forza della serie che, al contrario di tanti altri prodotti televisivi (senza fare nomi, mi riferisco proprio a Dahmer), non giustifica mai gesti a dir poco condannabili, non spinge mai lo spettatore a provare pena o pietà nei confronti di un assassino. Certo, provoca curiosità e quella che viene suscitata è sicuramente un tipo di curiosità morbosa, che spinge a indagare i trascorsi di un serial killer e scoprire dettagli sulla sua vita, ma, alla fine dei conti, le azioni di un killer sono tutte conseguenze, per quanto inserite in un contesto irrazionale, “logiche”. Non è un caso se, intervistando tutti questi criminali, alla fine, i due agenti scoprano un pattern, uno schema che si ripete, rendendo evidente e chiaro che sì, per quanto strano possa sembrare, c’è comunque un senso di fondo nella mente di chi programma di uccidere una serie di persone. 

Jonathan Groff e Hannah Gross in “Mindhunter” (Credits: Netflix)

Ci sarebbero tanti altri elementi da affrontare per parlare in modo approfondito di quanto questa serie sia valida, ma, per il momento mi fermo qui (nella speranza che qualcuno, visto che è tornato di moda il true crime, vada a recuperare questa perla ignorata e lasci perdere Ryan Murphy).


[1] Naranjo, A. and Fernández-Ramírez, L. (2020). Cambios en la estructura narrativa de las series de Netflix. El caso de Mindhunter. in ASRI, 18, pp. 137-153. 

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