“We talk it through, as a crew”: un approfondimento sulle tematiche affrontate da ‘Our Flag Means Death’, la serie creata da David Jenkins con protagonisti Rhys Darby e Taika Waititi.
di alessia
Nella primavera dell’anno corrente, quando persone amiche me ne hanno insistentemente consigliato la visione, non credevo che mi sarei approcciata a quella che tutt’ora, a distanza di mesi, rimane una delle mie serie preferite in assoluto: Our Flag Means Death, creata da David Jenkins, della quale è anche produttore esecutivo insieme a Taika Waititi (particolarmente famoso per la regia di Thor: Ragnarok e per la sceneggiatura, regia e recitazione in Jojo Rabbit, che lo ha portato alla vittoria di un Academy Award per la miglior sceneggiatura non originale). La serie conta una stagione da 10 episodi, di mezz’ora l’uno; distribuita sulla piattaforma streaming HBO max, è stata rinnovata lo scorso giugno per una seconda stagione.
the gentleman pirate e blackbeard
La storia si incentra su Stede Bonnet “the Gentleman Pirate” (“il pirata gentiluomo” interpretato da Rhys Darby), aristocratico che nel 1717 lascia sua moglie e l* figl* per dedicarsi alla vita piratesca, con una nave da lui stesso commissionata e a capo di una ciurma da lui regolarmente stipendiata. Durante la navigazione, per le sue maniere stravaganti e originali rispetto alle modalità cruente e violente della pirateria classica, attira l’interesse di uno dei più grandi e spaventosi pirati del suo tempo: Edward Teach, meglio conosciuto come Blackbeard, ossia Barbanera (interpretato da Taika Waititi).
Entrambi i personaggi sono ispirati a persone realmente esistite: sia il Pirata Gentiluomo che Barbanera sono documentati dalla storiografia del tempo, e per un periodo le loro vite si sono davvero incrociate. È importante, però, sottolineare che la serie si discosta fortemente da quelle che erano le loro reali soggettività, usandoli più che altro come pretesto narrativo per raccontare e creare personaggi: sia David Jenkins che Taika Waititi scherzano spesso sulla scarsa documentazione alla base della serie, che ha fra i suoi punti di forza proprio la sospensione dell’incredulità e l’imprevedibilità in favore di una maggior libertà nel raccontare i suoi personaggi. Waititi ha inoltre precisato in molte interviste come, nonostante le povere e brevi ricerche per interpretare Barbanera, abbia poi scelto di modellare su di sé il personaggio, dandogli un accento neozelandese e origini Maori.
i temi di ‘our flag means death’: esperienza e narrazione queer…
La libertà nella scrittura ha permesso quindi a David Jenkins di creare una commedia romantica che è anche uno splendido, confortante e toccante manifesto queer: molti dei personaggi presenti nella ciurma di Bonnet – e nella serie in generale – sono apertamente e serenamente queer, ed è proprio la naturalezza con cui vivono e manifestano la loro identità a rendere questa serie rivoluzionaria nel panorama dei prodotti audiovisivi LGBTQIA+. Abbiamo assistito a fin troppe narrazioni pietistiche e dolorose dell’esperienza queer: personaggi che vivono esistenze tragiche con amori tragici che vanno incontro a fini tragiche sono all’ordine del giorno e, per quanto importanti e necessarie a dare voce alle difficoltà e discriminazioni che, come comunità, abbiamo subito e spesso ancora subiamo, non bastano a rappresentarci a pieno. Essere queer è anche gioia nella libertà di essere e di scoprirsi e per rappresentare tutto questo è necessario avere storie che mostrino semplicemente la nostra esistenza, senza aggiungere pornografie del dolore giustificate dal dovere di innescare empatia in chi guarda.
Gran parte del cast è apertamente queer: citiamo, ad esempio, Nathan Foad (nella serie veste i panni di Lucius Spriggs) e Vico Oritz (persona non-binary che interpreta Jim Jimenez, anche nella serie, una persona non binaria): un lavoro di rappresentanza e rappresentazione simile è importantissimo per dare visibilità a corpi e soggettività che, ancora oggi, vengono silenziate e spinte ai margini. Lo ha dimostrato anche l’enorme risposta da parte del fandom, che fin dalle prime puntate ha subito manifestato un enorme coinvolgimento e apprezzamento della serie: su internet e sui social basta fare una breve ricerca per veder fioccare fanart, videoedit, cosplay e fan-fiction, nonché teorie su un possibile futuro svolgimento della trama che anche Jenkins stesso e le persone del cast amano condividere e mostrare al loro seguito, in un’atmosfera di scambio e arricchimento reciproci.
…ma anche critica al colonialismo e scoperta di sé
Oltre alla visibilità queer, non posso non menzionare il ruolo che il colonialismo e il razzismo hanno nella serie: come accennato precedentemente, Taika Waititi ha modellato Blackbeard come un uomo mixed di origini Maori in un periodo, quello del XVIII secolo, intriso di politiche coloniali e in cui il razzismo godeva di validazioni mediche e giuridiche. Con il termine mixed si fa riferimento ad una persona che ha origini familiari diversificate, ad esempio figlia di genitori di due Paesi o continenti diversi. Il passato povero e l’identificazione di Barbanera come persona razzializzata plasmano fortemente il suo personaggio, evidenziandone marcatamente il trauma generazionale attraverso un linguaggio che si nasconde in gesti e oggetti a lui cari. Si usa il termine “razzializzato” per indicare un individuo che si discosta dalla norma bianca eurocentrica per colore della pelle, cultura, tradizioni e in quanto tale subisce discriminazione razziale. Il participio passato serve a sottolineare la natura storico-sociale che innesca il processo di razzializzazione, escludendo così la matrice biologica del concetto di “razza”.Vi invito ad approfondire il tema del trauma generazionale in Our Flag Means Death a seguito della visione della serie (poiché sarebbe impossibile farlo senza spoiler), approfondimento che potete trovare a questo link.
Per quanto la serie sia descritta come una commedia romantica, il trauma è di fatto molto presente: anche il personaggio di Stede Bonnet, per quanto aristocratico e privilegiato, è una persona segnata da eventi del suo passato, più o meno recente, che hanno a che fare con la misoginia, che punisce chiunque sia socializzato come uomo e non rispetti gli stereotipi virili, con le costrizioni sociali e l’abbandono della sua famiglia, giusto per citarne alcuni. Con la dicitura socializzato come uomo si cerca di tradurre in italiano l’espressione inglese male presenting, ossia quella categoria di persone percepite a prima vista, ossia, appunto, socializzate, come uomini ma che non si riconoscono nel genere loro assegnato alla nascita. Anche questi hanno un ruolo centrale nel plasmare la persona di Stede, durante l’intero svolgersi della serie, e si contrappongono al trauma generazionale e personale di Edward: ed è proprio il loro incontro che determinerà per ognuno il confronto con i propri demoni.
inaspettate improvvisazioni
Un altro punto di forza che rende la serie ancor più preziosa e la sua visione necessaria è l’enorme quantità di improvvisazione permessa al cast: nell’intervista rilasciata a Nerds and Beyond, Samba Schutte (attore, comico e scrittore olandese-mauritano che nella serie interpreta il personaggio di Roach) racconta di come Jenkins abbia lasciato loro grande libertà sia nella costruzione che nell’espressione del proprio personaggio, in modo da scovare e portare in scena il lato comico di ciascuno. Ed ecco quindi che durante la visione della serie vi imbatterete in battute o addirittura intere scene totalmente improvvisate, frutto dell’ispirazione del momento, della chimica fra due personaggi o di un colpo di fortuna: rimarrete a bocca aperta dopo averne scoperte alcune. Il cast sottolinea spesso quanto sia stata illuminante e stimolante un’esperienza simile, avendo permesso loro di mettersi alla prova come performer ma anche di creare un’atmosfera di genuino divertimento sul set. Schutte afferma anche che non tutta l’improvvisazione è stata inclusa nella serie, il che significa che esistono probabilmente ore di girato inedito della serie: inutile dire che il fandom sente un viscerale bisogno di averlo.
Queerness, razzializzazione, trauma, scoperta di sé: il tutto raccontato attraverso le (dis)avventure di un gruppo di pirati, interpretati da uno splendido, vario e talentuoso cast. Non vi rimane che levare l’ancora e mollare le vele.
P.S. ecco alcuni link per approfondire le tematiche trattate:
Misoginia, queerness, simbologia del faro e del kraken (spoiler alert!)
Video intervista a Rhys Darby, Taika Waititi e David Jenkins
Aneddoti raccontati da Rhys Darby, Taika Waititi e David Jenkins