Abbiamo visto in anteprima alla 75° Berlinale l’ultimo capitolo della trilogia di Dag Johan Haugerud.
recensione a cura di marco morelli
Esattamente dodici mesi fa, lo scrittore e regista norvegese Dag Johan Haugerud presentava nella sezione Panorama della Berlinale 74 Sex, primo capitolo di una trilogia proseguita con Kjærlighet (Love) nel concorso principale a Venezia (in cui si sono invece conclusi i tre capitoli Youth di Wang Bing). La première internazionale del terzo e ultimo capitolo è avvenuta mercoledì 19 febbraio nella sezione principale di questa Berlinale con Drømmer (Dreams), già uscito in patria lo scorso ottobre.

Pochi autori nel mondo arthouse hanno firmato una trilogia in tempi così ristretti: l’esempio più immediato e lampante è Krzysztof Kieślowski con i suoi Trois Couleurs. Bleu, Blanc e Rouge rappresentavano i tre valori universali su cui è stata fondata la Repubblica Francese: Liberté, Égalité e Fraternité. Anche i titoli della triade di Haugerud fanno riferimento a fenomeni fondamentali: sesso, amore e sogni. Sono proprio questi ultimi al centro dell’opera presentata alla Berlinale.
In Drømmer, la diciassettenne Johanne si innamora della propria insegnante di francese Johanna (!) e decide di mettere per iscritto e senza filtri i suoi sentimenti per elaborare la sua esperienza. Tuttavia, la scoperta del manoscritto da parte della nonna e della madre susciterà (forse?) una maggiore presa di coscienza per tutti i personaggi coinvolti. Il film, con un cast quasi interamente femminile, è narrato attraverso il voiceover di Johanne. Questo artificio, per quanto possa risultare stucchevole, evidenzia l’elaborazione della sua esperienza e mima la stesura del manoscritto. La scrittura come forma di consapevolezza e terapia è uno dei temi centrali di Drømmer: l’efficacia della scriptotherapy è stata molto dibattuta negli ultimi trent’anni [1] ed è un topos già esplorato in altre opere simili. Ad esempio, anche la protagonista di un’opera cardinale dell’ultimo decennio come La Vie d’Adèle racconta il proprio queer awakening (così definito dalla madre di Johanne) su un diario; lo stesso processo è evidente anche in Un amour de jeunesse di Mia Hansen-Løve.

La scrittura nell’opera assume anche un carattere generazionale. La prima persona a cui Johanne fa leggere il manoscritto è sua nonna, scrittrice di successo: sarà lei a ventilare l’ipotesi che dalle sue memorie possa scaturire un libro pubblicabile da una casa editrice. Da questa idea nasce un gustoso diverbio con la figlia, inizialmente meno interessata alla penna di Johanne che a una possibile violenza perpetrata dall’insegnante: il litigio sfocerà in una divertente ellisse sull’impatto politico di Flashdance. Convince appieno lo sviluppo melodrammatico, in particolare per l’evoluzione dei sentimenti che Johanne prova per la sua insegnante. In conferenza stampa, Haugerud ha dichiarato di aver cercato di ricordare il suo primo amore, sottolineando l’importanza di mettere per iscritto quei sentimenti così pieni di vita per poterli ricordare in futuro. Johanne immette su carta i suoi sogni e i suoi sentimenti: tuttavia, come spesso avviene a quell’età, tende a sopravvalutare l’affetto che Johanna prova per lei.

Quest’ultima, però, non appare del tutto innocente agli occhi dello spettatore. In particolare, nella scena dell’incontro con la madre di Johanne per la pubblicazione del libro resta sulla difensiva e accusa addirittura la ragazza di essersi approfittata di lei. Questi contrasti sul mondo contemporaneo e sulla crisi generazionale rendono il film intellettualmente stimolante e richiamano, in certi versi, il conterraneo The Worst Person in The World di Joachim Trier. Tuttavia, sorprende ancor di più il modo in cui Haugerud rappresenta l’esplosione del primo amore giovanile: le immagini di Johanne errante per Oslo colpiscono, e le riprese più intime nell’appartamento ricordano la forza di Todd Haynes che, neanche a farlo apposta, è presidente di giuria quest’anno.

Il finale, girato all’interno di uno studio di psicoterapia, segna la catarsi definitiva della protagonista. Questa liberazione, tuttavia, non sembra avvenire tanto per il potere di cambiamento attribuito alla psicoterapia (Johanne aveva giusto terminato la prima seduta) quanto per l’elaborazione per iscritto dell’esperienza e la crescita generale della ragazza. Nell’ultima scena Johanne sceglie di liberarsi di un oggetto regalatole da Johanna: questo decluttering emotivo simboleggia il superamento del trauma e la volontà della ragazza di andare avanti. [2] In conclusione, Drømmer è un coming-of-age queer onesto e relatable, ben scritto e ricco di spunti interessanti. Non so se riuscirà a vincere un premio, ma è, comodamente, il mio film del cuore di questo concorso.
[1] Riordan, R. J. (1996). Scriptotherapy: Therapeutic writing as a counseling adjunct. Journal of Counseling & Development, 74(3), 263–269. [2] Balint, M. (1969). Trauma and object relationship. The International Journal of Psychoanalysis, 50(4), 429–435.
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