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approfondimento a cura di pavel belli micati

“You’re not queer?” domanda Daniel Craig al giovane appena conosciuto in un bar, e che già vuole portarsi a letto, a inizio pellicola. “I am not normal!” grida Nicole Kidman al marito, verso la fine del film, quando gli confessa le oscure fantasie sessuali tenute nascoste per una vita. Sono questi i titoli che mi aspettavo di vedere alla serata di premiazione che chiude la stagione cinematografica –– la cerimonia degli Oscar prevista per domenica 3 marzo. Babygirl di Halina Reijn è prodotto e distribuito dalla A24, che distribuisce anche Queer, l’ultimo lavoro di Luca GuadagninoNessuno dei due si è qualificato nelle cinquine finali del premio più atteso. La delusione per la loro assenza si accompagna alla delusione per il mancato riconoscimento di due scritture raffinate, qui la penna di Justin Kuritzkes (già firmatario del copione di Challengers) e di Halina Reijn, che ha diretto l’esilarante murder mystery in chiave gen Z con Rachel Sennott e Maria Bakalova Bodies Bodies Bodies (2022). Ma la loro assenza delude anche per il mancato riconoscimento di due regie elaborate, ora Reijn stessa che dà vita al suo sguardo ironico sul thriller erotico, ora Guadagnino che cura il sofisticato adattamento di una pietra miliare della letteratura statunitense, il romanzo omonimo di William Burroughs. Mi dispiace, infine, anche per le mancate candidature delle performance protagoniste – che si erano qualificate ai Golden Globes –, Nicole Kidman nei panni di Romy Mathis, la C.E.O. di un’azienda di robotica alla scoperta del piacere (e in vista di guai) e Daniel Craig nelle scarpe di William Lee, un veterano di guerra alla ricerca d’affetto, svago e una vera connessione col mondo. 

«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis / A24)

Questa stagione la A24 ci ha regalato diverse chicche: il dramma distopico sul reportage di guerra Civil War di Alex Garland, l’horror nostalgico sulla serialità televisiva I Saw the Tv Glow di Jane SchoenbrunLove Lies Bleeding di Rose Glass, la rivisitazione saffica degli action b-movies alla Sylvester Stallone. Ma oltre al cavallo di punta The Brutalist, l’epica sulla Bauhaus e le implicazioni estetiche del nazismo con cui Brady Corbet quest’anno compete per ben 10 statuette, il colosso cinematografico statunitense – che prende il nome dall’autostrada che passa vicino casa mia – ci ha portato anche due opere che, in risposta ai canoni contemporanei, veicolano drammi che esercitano una forza estemporanea. Sia in Queer sia in Babygirl, l’assetto della narrazione lega i temi trattati alla loro immediata fruizione: qui la sessualità, dispositivo presente in entrambi i film, comunica contemporaneamente con la semantica narrativa e col pubblico che assiste. In questo senso entrambe le storie hanno più le sembianze di pièce teatrali che non di film. In primis, c’è il simbolismo naturalistico dell’ambientazione: la spoglia Città del Messico in Queer, con le sue larghe strade polverose e i grandi alberi di ciliegio, rappresenta l’esilio privato del suo eroe, un vecchio omosessuale con una dipendenza da sesso e da oppiacei; la vibrante Manhattan, l’ufficio nel grattacielo in vetro da cui governa la protagonista di Babygirl, funge invece da scenario-kink, il luogo dove la fantasia soft-porno della relazione extra-coniugale, il tropo erotico della tragedia moderna, prende corpo e si consuma. 

«Babygirl» di Halina Reijn (Credits: A24 / Eagle Pictures)

Il sesso tematico è stato sdoganato dal cinema, complice pure l’audiovisivo contemporaneo, sempre più informato dalla pornografia. Curioso però che il cinema mainstream, come pure accade nell’industria hard, ne insceni versioni sempre lontane dalla realtà: quando non è oscuro e oggettificante, l’atto sessuale risulta passionale e coreografico –– a seconda del genere cinematografico che lo racconta, insomma. Le due opere, presentate l’edizione a Venezia l’anno passato, sono state classificate come cinema che usa e osa con i contenuti ‘espliciti’. Per quanto hot queste scene, le opere che le veicolano assimilano il dibattito sul sesso cinematografico, modificandone le istanze. Babygirl, rivisitazione ‘femminista’ dei temi e i tropi del famoso subgenre erotico lanciato da film cult come 9 settimane e ½ di Adrian LyneBasic Instinct di Paul Verhoeven, condivide molte delle politiche sessuali descritte da Queer, l’adattamento del romanzo fondante l’ethos beatnik. Incentrate ambedue sulle avventure uniche di personaggi singolari, queste narrazioni trattano la sessualità come manifestazione di una parabola più complessa, allegoria che passa attraverso la solitudine individuale e lo stigma sociale. 

«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis / A24)

Non vedere questi due film agli Oscar spiega il legame che Hollywood intrattiene con la creazione artistica. Ma nello specifico, è con le narrazioni meno conformi e i messaggi più profondi che l’Academy ha dei problemi. Queer Babygirl hanno fatto discutere, ma se fosse solo per le scene di sesso o le dinamiche sessuali rappresentate, sarebbero giusto dei porno. Sono invece i drammi che prendono corpo dal loro nucleo tematico, la mise en scène dell’atto sessuale che influenza i piani narrativi e simbolici, a confondere la ricezione –– e forse anche i membri della commissione. Che l’Academy – composta da vecchi liberal e giovani reazionari, accecata dai numeri delle grandi corporazioni distributive, piegata alle logiche del consumo più superfluo – a fatica riceva il sesso come trattamento estetico a una poetica più profonda, non sorprende: la scorsa edizione, il pluricandidato Poor Things di Yorgos Lanthimos, nonostante gridasse al weird sex, trattava l’argomento  da un punto di vista neopositivista: il sesso di Bella Baxter come prosa scientifica, sgombra da fluttuazioni postromantiche e dalle implicazioni sociali inerenti le politiche sessuali. Così pure l’avventura di una giovane sex worker Anora, in lizza quest’anno con 6 candidature, descrive l’atto come una prestazione occasionale, aggiornandolo alle disposizioni contrattuali e alle logiche del divertimento. Credo che l’assenza di narrazioni esplicitamente anticonvenzionali sull’identità sessuale evidenzi, più che un disinteresse, un’incomprensione circa le sue potenzialità comunicative.

«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis / A24)

Il meccanismo drammatico da cui parte la narrazione, in Queer e Babygirl – due adulti sedotti da partner più giovani –, si origina da un piano reale e autorizza a un paradigma fantastico, ricreato dal desiderio frustrato e/o rimosso. Da una parte c’è Romy, donna in carriera nel 21esimo secolo, madre e moglie premurosa che nasconde una terribile verità: non ha mai provato un orgasmo con suo marito. Dall’altra troviamo Lee, veterano di guerra ora in pensione che, nel Messico degli anni Cinquanta, fa la conoscenza e s’innamora di un giovane suo connazionale, con cui parte alla ricerca di una pianta misteriosa. Personaggi molto lontani tra loro che però vivono, nel climax della loro parabola, la loro catarsi drammatica, registrata sotto l’effetto di allucinogeni: l’ayahuasca in questo caso per Lee, l’MD invece per Romy. La regia segue e asseconda il trattamento iperrealista all’approdo finale, il punto di non ritorno. Come poi la queerness, l’omosessualità nel secolo scorso è causa della solitudine di Lee, anche il desiderio di Romy (che è anzitutto moglie e madre, e poi forse donna) è fonte di un disagio che l’affligge: la donna sogna scenari sessuali estremi, suggeriti dal consumo di video porno S&M. L’uomo invece è ossessionato da uomini più giovani di lui che incontra nel suo confino. Romy vede nel nuovo stagista Samuel la trasfigurazione del proprio desiderio sadomaso. Lee, che da subito si invaghisce del bello e impossibile Allerton, vede in lui il riscatto alla propria identità negata. 

«Babygirl» di Halina Reijn (Credits: A24 / Eagle Pictures)

“Nobler I thought to die a man than to live on a sex monster” recita Lee, che della sua omosessualità si porta dietro il pesante fardello. Dall’altra parte, una Romy singhiozzante confessa al marito il tradimento: “I just want to be normal, I want to be the woman you like!”. A metà tra confessione e ammissione di colpevolezza, tra difesa e condanna, le voci protagoniste di Queer e Babygirl drammatizzano il desiderio a partire dal confronto, ideale, con l’aspettativa sociale e in prospettiva dello stigma, reale, che accompagna la sua disattesa. Il primo opera convenzionalmente sulla polisemia della parola che dà il titolo all’opera; il secondo gioca con le convenzioni del subgenre, ribaltando però i ruoli di genere. Tutti e due inscenano il dramma di due outsiders, anime afflitte dalla solitudine, schiave della loro stessa passione. Non a caso i titoli dei film richiamano, più che le identità dei protagonisti, le loro inclinazioni sessuali: la ‘checca’ nella vecchia accezione del termine, per uno; la ‘bambina’ nella dinamica sub-dom  della fantasia porno, per l’altra. La sintesi musicale, con brani pop che entrano nella diegesi, amplifica l’effetto di straniamento: sulle note di “Come As You Are” Lee cammina e scorge tra la folla Allerton, che riconosce come oggetto del suo desiderio; alla festa aziendale, Romy guarda il giovane Samuel ballare sui passi di “Dancing On My Own” e sublima il riscatto al suo piacere negato. 

«Queer» e «Babygirl»
«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis / A24)

 Junkie, uscito nel 1953, era il resoconto di Burroughs sulla sua assuefazione. Con Queer, scritto in contemporanea a Junkie ma pubblicato solo nel 1985, il precursore della beat generation raccontava dell’astinenza e vi traslava un amore destinato, per analogia, a non corrispondere mai. L’astinenza assurge qui a dignità ontologica: ora distacco dall’oggetto desiderato, ora frustrazione del desiderio proibito, si traduce nella solitudine che trova, nel tropo dell’amor proibito, le rivendicazioni alla propria natura repressa e/o rimossa. Babygirl e Queer non raccontano propriamente una storia, drammatizzano piuttosto la condizione dei loro protagonisti, secondo una prospettiva autoriale. La reinterpretazione di un immaginario condiviso diventa così catarsi del dramma personale. Questo fa la loro qualità drammaturgica. Il desiderio è esplicitato, ma la sua verità non corrisponde, la sua risoluzione è parziale. Convivono, negli occhi languidi dei protagonisti, il bisogno di rompere la conformità da cui si è esclusi e la vergogna a mostrare la difformità di cui si è portatori. Lee con la mano disegna la sagoma di Allerton, desidera lui e al contempo si strugge perché non è lui. Romy traduce in Samuel il suo dissidio interiore a filo tra paura dell’adulterio e smania di lussuria. Il marito di Romy è un regista teatrale al lavoro su Hedda Gabler: non a caso l’enigma moderno della pulsione vitale più celebre di Ibsen drammatizza quell’equilibrio tra eros e thanatos che pure ritroviamo in entrambe. 

«Queer» e «Babygirl»
«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis / A24)

Le parentele di Babygirl Queer, sia nella vita sia nell’opera di Burroughs, così come nel teatro naturalista e come pure nella carriera della stessa Reijn – che ha recitato in trattamenti di successo di Ibsen, Cechov e Cocteau –, trovano corrispondenze con il tema della morte e dell’omicidio. Il sesso, già processo di sdoppiamento e opera di riscatto, si offre qui come riduzione, l’alternativa a quella pulsione di morte descritta da Nietzsche ne La nascita della Tragedia, clinicizzata da Freud e riformulata dal nuovo melodramma americano di Tennessee Williams e Edward Albee. Da catarsi delle proprie pulsioni, l’atto sessuale diventa la scena dell’azione finale: il palco dove i protagonisti indulgono in ciò che non autorizzano mai completamente a se stessi. Per Lee, figurazione dell’omosessualità, sintesi della ‘checca’ che insieme desidera possedere il corpo del giovane amato e comunicare con l’altro, il sesso acquista un’agenzia narrativa riscattando un desiderio identitario. Solo attraverso il corpo altrui la voce propria è autorizzata a parlare, la scena ha luogo, il dramma si compie. Anche per Romy, satira del femminismo capitalista, parodia sexy della menopausa, il sesso estremo redime la natura negata e si sostanzia nel corpo giovane dell’amante. Non importano le implicazioni pratiche del sesso: sappiamo che l’incontro con l’altro, in nessuno dei casi, è o sarà mai quello ideale. Contano, più di ogni altra cosa, le rivelazioni interiori che la messinscena suggerisce. Perché Romy e Lee inscenano la propria storia e noi assistiamo al loro dramma: è sul piano psichico che la tragedia si consuma.

«Queer» e «Babygirl»
«Babygirl» di Halina Reijn (Credits: A24 / Eagle Pictures)

Il dramma borghese è morto? Direi di no, anzi. Peccato che sia prerogativa di una certa sensibilità considerare alcune narrazioni più o meno efficaci di altre. Il teatro a differenza del romanzo non racconta, bensì mette in scena, rappresenta: il cinema parte da qui. Qui il cinema spesso torna. Queer e Babygirl sono pièce di una certa qualità, rappresentazioni di tipi umani ma, ancor prima, maschere della loro condizione: due borghesi che, in attesa della tragedia maggiore, vivono il loro dramma personale, sfidano le convenzioni che la loro natura insidia e inverano, infine, il loro desiderio. È sui passi febbricitanti di “Father Figure” che Romy guarda l’amante e insieme il suo pubblico, rivelandoci la fantasia che nutre da tempo; è sulle note malinconiche dei New Order che Lee prepara la sua dose e, nel buio della stanza, ci mostra il vuoto incolmabile che si trascina da una vita. Che siano i modellini fatti a mano di un espatrio immaginato, o gli edifici in cemento di una moderna metropoli –– anche il design della scena irrompe nella diegesi e, in contiguità col missaggio sonoro, accompagna il monologo finale di due voci che, nella loro uscita di scena, trovano finalmente la loro libertà. Babygirl mette a nudo il sentimento privato di un immaginario collettivo, restituendone il melodramma; se il contrario di parodia è catarsi, allora Queer è lo psicodramma collettivo dell’immaginario privato del suo autore. Nel drammatizzare la diversità, la universalizzano, la rendono accessibile.

«Queer» e «Babygirl»
«Babygirl» di Halina Reijn (Credits: A24 / Eagle Pictures)

Wayne Booth sosteneva che il dramma fosse l’unico superstite nella tradizione tragica. La sua unicità risiederebbe nel saper rappresentare, attraverso simboli universali, un affare umano, un caso di coscienza. Se questo è vero, com’è pur vero che la coscienza è l’unica cosa che importa in un’epoca rappresentata da estetiche artificiali, Babygirl e Queer sono allora drammi nel senso classico del termine. Ma sono anche opere queer, nella definizione originaria della parola. È nella sua negazione prima, e nell’esperienza autorizzata dalla riformulazione artistica poi, che il sentimento del dramma moderno s’instaura e perdura. I copioni di Guadagnino e di Reijn raccontano la psiche umana com’è, non come dovrebbe essere, il desiderio come processo, non come approdo. Questo è anche ciò che fa il queer. Sulla sua eredità drammatica, scriveva Scipio Slataper – il maggior critico di Ibsen in Italia – a proposito di Hedda Gabler: se non abbiamo un centro e uno scopo, se non c’è sintesi per l’essere umano, allora l’arte è ciò che siamo. È “l’uomo psichico”, con i suoi desideri, traumi e ossessioni, ma sempre proteso verso la vita – o una qualche sua rappresentazione – che sopravvive al proprio tempo. Per oltre trent’anni, Queer è rimasto in un cassetto ad attendere tempi più favorevoli per la sua pubblicazione, ragione per cui non figura tra le letture obbligate della tradizione queer. È così, e pure non dovrebbe esserlo.

«Queer» e «Babygirl»
«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis / A24)

Nello spettro queer ereditato dal postmoderno, il confronto con la norma collettiva nega la natura individuale, mai a tal punto però da eliminare l’attrito prodotto dallo smacco tra ideale e reale. Questa frizione – chiamatela ironia, o humor, o come volete – è lo spettacolo che la nostra coscienza riserva solo ed esclusivamente a noi. Noi, che siamo il pubblico migliore per la nostra solitudine. Così pure fa il teatro, la tragedia, la commedia e tutto ciò che passa attraverso la rappresentazione umana. Le scene più intense che ritroviamo in Queer e Babygirl raccontano precisamente quel disagio: il dramma unico che si consuma a partire dalla differenza che i protagonisti riconoscono in sé, e che autorizzano nell’altro. Così Lee, vitale e audace, attende l’autorizzazione di Allerton per avvicinarsi, conscio che il suo amore è solo una gentile concessione, niente più. Romy, dal canto suo, non rispetta i termini del contratto, seppur consapevole che l’ossessione per Samuel è solo un gioco per il ragazzo. Romy e Lee sono queer nella misura in cui rimangono fedeli al loro delirio. È qui che riposa l’essenza del dramma moderno, la realtà della fine in tensione col desiderio di infinito. Queer e Babygirl sono queer nell’effetto della loro messa in scena: una tensione sensibile tra esplicito e rimosso, apollineo e dionisiaco che non solo descrive i suoi protagonisti, ma che nell’informare un paradigma, inevitabilmente lo rappresenta.

«Queer» e «Babygirl»
«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis / A24)

Luca Guadagnino raccoglie così l’eredità di Burroughs, restituendo al pubblico, nel viaggio del suo protagonista, una confessione esplicita sul sentimento queer. Halina Reijn rende invece una parabola rimossa, decostruendo l’immaginario che ha intrappolato l’eros femminile e rompendo la tradizione che vuole le donne risolversi sempre nella morte –– da Didone a Ophelia, fino alla stessa Hedda; a proposito di Ibsen, al suo debutto nell’inverno del 1891, Hedda Gabler non convinse tutti: fu riscoperta tempo dopo, alla luce di individuazioni della filosofia contemporanea autorizzate dagli aggiornamenti psicanalitici. Proprio quel laboratorio che, nel secolo scorso, ha decostruito un paradigma, ne ha analizzato il linguaggio e, scorporando le estetiche che accompagnava, ha restituito un sentimento, un filtro, un’intuizione––verità tutte che riposano al di là della realtà stessa. Il cinema si sostanzia da un’immagine, il teatro prende dalla vita. In questo, trovo Queer e Babygirl più fedeli alla programmatica classica che alle istanze contemporanee. Perché non raccontano una storia o una condizione; queste narrazioni inscenano il dramma continuo della vita. Mi dispiace che l’Academy non abbia riconosciuto tale potenza, ma va bene così: il queer, per l’appunto, sta nella forza della sua anticipazione.

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