recensione di giulia gelain
Da tempo mi interrogo sulle possibilità del mezzo cinematografico in termini di rilevanza sociale: se non di critica, di ragionamento collettivo intorno alle indeterminatezze e alle complessità del nostro vivere presente. Un certo cinema indipendente percorre rotte luminose (ne esistono di molteplici) verso narrazioni – e documentazioni, se così possiamo dire – alternative, che instillano nel pensiero un barlume di speranza nell’evitare che tutto sia fagocitato, prima, e rigurgitato, poi, dall’industria “mainstream”. La casa di produzione e distribuzione Okta Film è in questo senso attenta a dare visibilità ad autori e autrici che hanno uno sguardo limpido sul reale, come Emmanuelle Démoris in Ormai, secondo film della trilogia Viaggio al lago (A domani, Ormai, Verso l’isola).
Presentato al Cinema du Réel di Parigi nel marzo 2023, racconta delle vite intorno al lago di Bolsena – quelle che abitano, quelle di passaggio, quelle passate e presenti. Maria Pace, Franck, Moreno, Saul e gli altri ci accompagnano alla scoperta del territorio attraverso gli occhi di chi lo conosce bene (la guida) e di chi sta imparando a conoscerlo e amarlo (i ragazzi arrivati dall’Africa). Le loro storie, intessute di entusiasmo, vitalità, speranza e consapevolezza, trascinano lo spettatore in un ambiente familiare, in grado di accogliere chiunque (anche il turista, ad esempio). Dunque la storia di queste persone si intreccia alla storia del luogo. Veniamo a contatto con la loro quotidianità, al centro accoglienza, alle feste di paese; seguiamo i gruppi di turisti dentro il Palazzo del Drago. Le riprese sono lunghissime, pochi stacchi, sembra proprio di essere partecipe di quei momenti catturati da Démoris.
La regista aveva già girato Mafrouza, una cronaca polifonica in 5 parti di una baraccopoli di Alessandria d’Egitto, che ha vinto il Pardo d’oro dei Cineasti del presente al Festival di Locarno nel 2010. Il documentario nasce con il cinema, ma solo negli anni Venti passa da essere considerato puro sguardo a essere considerato come discorso. Ormai, osservando, crea una riflessione intorno a ciò che mostra con sguardo curioso. Démoris si configura quindi come cineasta palombaro che si immerge nel reale per cogliere la vita sul fatto, secondo la definizione di Edgar Morin. Il film non è solo riproduzione del fattuale per come si presenta davanti agli occhi, ma rappresentazione di una delle tante esistenze talvolta messe da parte (nella vita e nel cinema).
Il lago di Bolsena non è sempre in inquadratura, eppure non lo si dimentica. Se ci si allontana, la malinconia è in agguato: Maria Pace, la guida, è convinta che debba sempre esserci un contatto con il lago, che sia anche puramente sensoriale o visivo. L’acqua esercita una forza di attrazione che nella sua quiete segue chiunque transiti nei suoi pressi, resistendo al tempo e alla fine delle cose. Non si può dare fine a una terra ospitale. bell hooks scrisse che “casa è quello spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza”. L’abitare è uno dei temi cruciali in un presente in cui lo Stato, come sottolinea Franck a fine film, lascia indietro tante persone. Emmanuelle Démoris trova una nuova via: usa il genere documentario, storicamente usato (anche e spesso) come strumento di propaganda, come esercizio di empatia.