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Di che cosa parliamo, quando parliamo di «The Substance» di Coralie Fargeat? Abbiamo provato a mettere insieme, in questa sorta di tavola rotonda, pensieri, parole, opere, omissioni e tutto quello che ci è passato per la testa durante (e dopo) la visione del film. Prendete sul serio queste nostre parole, ma con moderazione.

«The Substance» di Coralie Fargeat (Credits: I Wonder Pictures)

pavel

«Hai mai sognato una versione migliore di te?» cazzo, se non l’ho fatto. E forse pure Coralie Fargeat, che con The Substance conquista il premio alla migliore sceneggiatura di Cannes 2024. Questo film scorretto, pazzo, degenerato, segna una tappa importante nella storia del cinema: è l’ingresso del camp nel paradigma femminista contemporaneo e, contemporaneamente, la commercializzazione del camp femminista nell’audiovisivo. La regista francese di Revenge (2018) prende qui diversi tropi d’attualità – come quello dell’ossessione per la bellezza, del desiderio di gioventù eterna e della promessa di una fama senza tempo – e li decostruisce da qualsiasi prospettiva, montandoci sopra una versione iperrealista e multi genere di Dr. Jekyll e Mr. Hyde: una parabola aggiornata ai tempi delle immagini social, del fitness e della medicina estetica. Il paradigmatico showbiz di Hollywood e l’obsolescenza sincronizzata di stelle che, dalla vittoria dell’Oscar, scendono al pilates e finiscono in cucina, diventa lo sfondo comune sul quale Demi Moore e Margaret Qualley si battono. È uno scontro all’ultimo sangue, dove l’impazienza e l’energia giovanile fanno da contraltare alla frustrazione e alla depressione che accompagnano la vecchiaia.

«The Substance» di Coralie Fargeat (Credits: I Wonder Pictures)

In una distopia assurda dove, attraverso la sottoscrizione a un protocollo di modificazione genetica, è possibile produrre una versione più bella, più intelligente e più giovane di sé, Fargeat racconta una favola che risuona di continuo col suo pubblico e lo incanta con un simbolismo moderno del presente quotidiano: i tempi corrono diversamente per tutti, ma tutti in un modo o nell’altro inciampano nella bulimia. Che sia cibo, palestra, sesso o fama, non c’è un equilibrio per nessuno – perché è proprio la ponderazione che è impossibilitata, in un’epoca dove avere tutto-quanto-subito e pronto all’uso è un desiderio maggiore di qualsiasi effetto indesiderato che la brevità dei tempi può provocare. Elisabeth Sparkle è una Dorian Gray che non vuole accettare la propria fine, e la sua nuova versione, Sue, il suo desiderio rispecchiato che finisce per sfuggirle di mano. Sulle note estenuate di «Pump it Up», questa sostanza diventa la metafora di tutto ciò che è sbagliato nella società odierna: la chirurgia estetica, la strumentalizzazione dei corpi, l’invidia e l’insoddisfazione eterne che ci costringono a sognare versioni sempre migliori di noi stessi, anche quando il rischio è quello di diventare mostri peggiori degli altri. 

«The Substance» di Coralie Fargeat (Credits: I Wonder Pictures)

virginia

The Substance viene presentato in Italia in occasione della Festa del Cinema di Roma. Nel periodo che intercorre tra la presentazione nella grande capitale e l’uscita in sala, la mia casella di posta è bombardata da messaggi di uffici stampa che riportano frasi quantomeno bizzarre per promuovere il film e, successivamente, evidenziarne il grande successo di pubblico e critica. Ne segnalo alcuni, per rendervi partecipi di come, oggi, comunicano gli uffici stampa: «ITALIANI CORAGGIOSI IN 10.000 A VEDERE THE SUBSTANCE IL FILM DI CUI TUTTI PARLANO», proprio così, in caps lock e senza alcun segno di punteggiatura, con quel tono vintage che caratterizzava i cartelloni degli anni Quaranta, forse. «Il film più pop e social del momento continua a conquistare il pubblico italiano con il suo mix perfetto di spettacolarità, tensione, profondità» e anche, in occasione del compleanno di Demi Moore, protagonista del film: «La Gladiatrice Demi Moore festeggia il suo compleanno con un secondo weekend da record in Italia sfidando a mani nude colossi come Venom e The Rock». Tolta la scelta di lessico utilizzata in queste mail-propaganda, forse è già chiaro che nessuna di queste definizioni riflette come mi sono sentita di fronte a The Substance.

«The Substance» di Coralie Fargeat (Credits: I Wonder Pictures)

Il lungometraggio di Coralie Fargeat non è un brutto, è solo già visto, già sentito. Ha un grande incipit, dinamico, in medias res, in cui lo spettatore viene catapultato in un universo di cui non sa niente – ma in cui, al tempo stesso, riconosce tutto – con la stessa velocità con cui si cambia canale o si spegne la televisione. Con questi click, scatti veloci nel dispiegarsi della trama, arriviamo a capire che Elizabeth Sparkle (Demi Moore), un po’ Jane Fonda e un po’ influencer dei tempi moderni, ha bisogno di rinnovare il proprio look e, dove la chirurgia plastica non arriva, arriva la Sostanza, the substance. Ho apprezzato le ambientazioni e gli spazi dello studio televisivo, la stessa strada di Los Angeles che potrebbe essere qualsiasi e nessuna location. Come ogni body-horror che si rispetti, la storia procede verso un climax che può solo esplodere nel peggiore dei modi possibili: per la protagonista, per gli astanti sulla scena, per il pubblico in sala che sta assistendo allo spettacolo cinematografico. Se rientro tra le persone convinte che il film avrebbe potuto durare almeno quaranta minuti in meno? Potete giurarci. Ma del resto… we live in a society.

marco

Al centro di The Substance, oltre a un chiaro riferimento al «Ritratto di Dorian Gray», vi è una critica allo star system misogino, che non permette a donne (anche bellissime, come nel caso di Demi Moore) di invecchiare, portandole a trasformarsi in maniera sempre meno autentica. Sicuramente la scelta del body horror si addice a quest’ultimo punto; tuttavia, ho trovato il linguaggio cinematografico un po’ troppo forzato, così come troppo poco verosimili le parti più “reali”. Penso, poi, che la sceneggiatura sia un po’ debole nel rappresentare la contrapposizione tra Sue e Elizabeth, dato che la seconda appare fino alla fine troppo passiva. Inoltre, non fa abbastanza social commentary sui tanti integratori che ci vengono propinati e che, spesso, alimentano il dismorfismo corporeo. Apprezzabili il ritmo e alcune scene, oltre alla trovata di pubblicizzare un film a premio a Cannes come opera sensazionale per il mainstream; tuttavia, credo che per l’esecuzione sia un’occasione sprecata.

«The Substance» di Coralie Fargeat (Credits: I Wonder Pictures)

giulia

The Substance di Coralie Fargeat parte con un’idea di chiara lettura: invecchiare non è facile. Per certe persone però, è un vero e proprio incubo. Elisabeth Sparkle (Demi Moore) è una grande diva della televisione che si trova di fronte al punto di non ritorno, l’età avanza e – a detta del suo misogino (e chiaramente suo coetaneo) produttore Harvey (Dennis Quaid) – la gente ha bisogno di un nuovo volto nel mondo dello spettacolo, più giovane, migliore. Cosa ci sia di sbagliato in questa premessa non ve lo devo stare a spiegare io.  Posso dirvi, però, cosa ho trovato di poco accattivante nel modo in cui Fargeat ha affrontato la tematica. Il film nel suo quadro generale funziona e scorre tenendo lo spettatore, inevitabilmente, concentrato sullo schermo; tuttavia, non c’è goccia di sangue che è riuscita a distrarmi dal fatto che The Substance non ha poi questa grande sostanza. Funny, isn’t it?

«The Substance» di Coralie Fargeat (Credits: I Wonder Pictures)

Si inizia e si finisce allo stesso punto, con una climax che si concentra solo sullo shock dato body-horror e non si cura dello sviluppo della trama. Spezzando una lancia a favore di Fargeat, questa è forse sempre stata la sua intenzione fin dal principio: realizzare un film che non si cura di dare risposte o soluzioni, ma che sia d’impatto. Però purtroppo, a mio avviso, nonostante un ottimo uso del suono e delle musiche, questo impatto non riesce ad avvicinarsi come vorrebbe al livello di tutti quei film che la regista ha voluto omaggiare nella sua opera. The Elephant Man di LynchVideodrome di CronembergShining di Kubrick, Carrie di De Palma, per citarne alcuni. Durante la visione mi è involontariamente capitato di pensare a Titane, film di Julia Ducournau che vinse la Palma d’oro al 74º Festival di Cannes. Anche in quel caso non avevo esageratamente apprezzato lo sviluppo della storia, ma a Ducournau va riconosciuto l’ottenimento di questo impatto di cui stiamo parlando, eccome. Una cosa è certa, il body-horror negli ultimi anni si sta facendo spazio nelle categorie di film apprezzate dai grandi festival, e di questo non possiamo altro che gioire. 

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