approfondimento a cura di pavel belli micati
Si è conclusa, domenica 27 ottobre, la diciassettesima edizione di Archivio Aperto, il primo festival italiano d’archivio nato a Bologna. Sul tema di quest’anno, l’Arte della Memoria, la giuria ufficiale ha selezionato Silence of Reason (2023) di Kumjana Novakova come Miglior film, Le voyage de documentation de Madame Anita Conti (2024) di Louise Hémon per Miglior corto, e Triton (2024) di Ana Lungu per Miglior utilizzo di materiali d’archivio privati. Il primo, sulla guerra in Bosnia ed Erzegovina, restituisce attraverso testimonianze delle atrocità e violenze inflitte alle donne, un documento emotivo privato dell’orrore subito e perpetrato. Il secondo, sulla prima oceanografa francese on board, da documento sulla pesca al Merluzzo nell’Atlantico negli anni Cinquanta apre a testamento affettivo sui pescatori che ci lavorano. Il terzo, resoconto della vita di un compositore e insegnante di musica romeno durante la lunga dittatura di Ceauşescu, si trasforma in ossessione privata della regista per i segreti più intimi di quest’uomo misterioso.
Una Menzione Speciale è stata riservata a 24 Cinematic Points of View of a Factory Gate in China (2023) di Ho Rui An, selezione tra immagini storiche e riprese di videosorveglianza che percorre, non senza uno sguardo critico sulla globalizzazione mondiale e il crescente predominio dell’industria cinese, l’evoluzione della fabbrica nel rapporto con i suoi lavoratori. La giuria giovani ha riservato una Menzione Speciale ad A Fidai Film (2024) di Kamal Aljafari, sulla distruzione dell’archivio storico palestinese da parte dell’esercito israeliano durante la guerra del Libano; Fragments of Ice (2024) di Maria Stoianova – una figlia che ricorda il padre, pattinatore di ghiaccio del balletto sovietico in Ucraina – e Grandmamuntsistercat (2024) di Zuza Banasinska – rivisitazione dei filmati propagandistici della Polonia comunista attraverso l’infanzia vissuta in un contesto matriarcale – invece sono stati scelti, rispettivamente, come Miglior film e Miglior Corto.
Al di là di premi e vittorie, l’esperienza del cinema è sempre qualcosa di privato, così anche i sentimenti prodotti da altre opere selezionate come Some Thoughts on the Common Toad (2023) di Anthony Svatek, Autism plays itself di Janet Harbord (2024) e The Hidden Gesture (2023) di Dana Najlis; mentre Les mots qu’elles eurent un jour (2024) di Raphaël Pillosio, Ali je bilo kaj avantgardnega? (2024) di Jurij Meden e Matevž Jerman, TERRA NOVA – Il paese delle ombre lunghe (2023) di Lorenzo Pallotta e A Portas Fechadas (2023) di João Pedro Bim, rileggendo un passato cristallizzato in un presente profondamente modificato, rompono la linearità temporale e costruiscono un ponte che lega memoria collettiva a prassi privata; ma anche istanze utopiche vivono nella ricezione di lavori come City of Poets (2024) di Sara Rajaei, e la fantasia trasforma l’aneddoto in leggenda nella mistica de Las novias del sur (2024) di Elena López Riera.
Oltre alle opere in concorso, Archivio Aperto ha ospitato altre sezioni: quest’edizione sono stati proiettati inediti di Chantal Akerman in Storie Sperimentali; una proiezione con sonorizzazione dal vivo ha omaggiato la figura di Goliarda Sapienza; selezioni dal 25 FPS da Zagabria in Carte Blanche hanno dimostrato la varietà di pratiche, creative, inusuali e divertenti, tramite cui l’archivio può essere riutilizzato; l’installazione Kew. A conversation in Green di Adelaide Cioni ha servito da riflessione su come natura e archivio nelle loro varietà semantiche coincidano; e altri numerosi incontri, eventi speciali e confronti hanno animato le conversazioni sull’arte della memoria dell’Archivio Aperto. L’offerta del festival, nato per la riscoperta di memorie private e la loro riattualizzazione, ora più che in passato ci pone di fronte a una questione cruciale, espressa dal dialogo sugli Archivi a Gaza svoltasi sabato 26 ottobre tra Maria Chiara Rioli (UniMoRE) Elena Monicelli (Scuola di Pace di Monte Sole) ed Elena Pirazzoli (Home Movies).
La guerra a Gaza interpella non solo i curatori, cineasti ed esperti d’archivio che ogni anno si riuniscono a Bologna, chiama all’attenzione anche la ricezione privata dei privati cittadini. Se molti conflitti, più o meno lontani, sono stati il centro tematico di opere in e fuori concorso, l’odierno conflitto, aperto e vicino, ci pone questioni che partono dalla coscienza storica, attraversano la restituzione documentaria, il vaglio delle fonti, la sinossi dell’informazione, l’educazione alla pace ma soprattutto chiamano alla cura per la memoria – pura e situata – di chi la guerra la vive in prima persona. Europa centrale, Europa dell’est, ma anche Nord America e Sud America, con una piccola punta nel Sud-Est asiatico: il ventaglio di opere e autori che quest’anno Archivio Aperto ci ha proposto è colorato da una varietà di lingue, culture e ricezioni diverse, a volte anche opposte, ma tutte accomunate dall’amore per l’archivio, trasfigurazione visiva della memoria di chi non c’è più.
Nuove filosofie e consecutive descrizioni estetiche abbondano nei dibattiti sui reperti storici e i loro riusi, e se attenzione particolare è stata data alla questione mediale della multi-prospetticità, valorizzando la diversità di punti di vista entro cui le narrazioni possono essere descritte, temi di natura politica come il revisionismo storico e analisi estetiche di pari passo con l’ermeneutica della ricezione, questioni filologiche come la postvita delle immagini e prassi ideologiche volte a creare una linea di divisione tra attivismo ed educazione sono alcuni dei tantissimi argomenti affrontati durante queste giornate di incontri. La situazione a Gaza, forse la più cruda, registrata e ingiusta alla quale il mondo intero oggi sembra assistere impotente, ci chiede un’attenzione particolare proprio per la complessità intrinseca della sua storicità e i ritmi attraverso cui la sua comunicazione viaggia.
Gli archivi sono distrutti, gli archivi sono modificati, gli archivi vengono nascosti, salvati e trasferiti. È un movimento centripeto quello verso cui vanno documentazioni e testimonianze di chi, direttamente o meno, assiste alla guerra e si chiede da dove poter ripartire, come poter dimenticare la violenza e contemporaneamente ricordare il dolore. Come nell’uso degli archivi, una soluzione di continuità non esiste; siamo noi a dover cercare, nel nostro privato, un compromesso in equilibrio tra conoscenza e sentimento. “Le analogie non sono equivalenze, e i meccanismi non sono viventi”, chiude il dibattito Monicelli, che si occupa da anni di educazione alla pace presso la Scuola di Monte Sole, e così ci esorta a trovare un senso, o un dissenso, che parta da noi, dalla nostra ricezione privata, per creare un luogo dove la violenza non esiste, un posto altro dove immaginare la pace.
Il linguaggio cinematografico ha infinite semantiche, per fortuna non è stretto nel linguaggio umano, che invece rimane binario, contrastivo. È la dialettica dell’io vs tu, del noi contro voi, è il lessico dei confini nazionali, delle identità monolitiche descritte dalla loro sistematizzazione e dal risultato comunitario che sono le nazioni, i paesi, gli stati, a forzarci nell’errore continuo. La dimensione dell’archivio, così come la discussione sulla pace, sono la stessa cosa, se guardate da una prospettiva che trascenda le differenze comuni e punti al sentimento individuale. Perché abbiamo bisogno di uno spazio dove immaginare la pace, ma abbiamo anche bisogno di un tempo per riformulare il perdono. È tardi per ignorare, è inutile tacere. Non si può dimenticare la connessione emotiva, l’analogia dei sentimenti, che ogni essere umano condivide nell’atto del ricordo – sembra concludere quest’edizione. E anche se Archivio Aperto chiude, l’Arte è Libera e la Memoria rimane Aperta.