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recensione a cura di pavel belli micati

Tony Kaye è un outsider ad Hollywood. Giunto alla ribalta col suo American History X – diario del pentimento di un ex naziskin che riacquista la libertà dopo un omicidio a sfondo razziale – il regista vanta una produzione ricchissima: il documentario sull’aborto negli USA Lake of Fire, la cui lavorazione è durata quasi vent’anni; il faticoso adattamento della detective story di Stroud Black Water Transit, thriller intorno a un’azienda logistica in Louisiana che non ha ancora visto la luce; il dramma sull’empatia con Adrien Brody Detachment; vari progetti, corti e videoclip musicali, tra cui spiccano le collaborazioni col bassista dei Pink Floyd George Waters, il trattamento postumo della cover di Johnny Cash “God’s Gonna Cut You Down” e addirittura quello della hit dei Red Hot Chili Peppers, “Dani California”. In The Trainer, in anteprima mondiale al Rome Film Fest quest’anno, lo Scholar inglese naturalizzato americano mette a frutto il praticantato, tutt’altro che lineare, e ritaglia un’anti-epica che intreccia generi, toni e temi attorno alla nuova trasfigurazione del common man: un personal trainer.

«The Trainer» di Tony Kaye
«The Trainer» di Tony Kaye (Credits: Rome Film Fest)

Jack Flex non è biondo – il capello è decolorato –, indipendente – vive da sua madre –, di successo – non allena le celebrità –, ma nemmeno scemo: quando un canale di televendite si mostra interessato alla sua invenzione – un casco cromato che massimizza lo sforzo muscolare ottimizzando l’allenamento – capisce che questo è il suo unico biglietto per l’Olimpo: il viaggio però fila tutt’altro che liscio. La CEO di RVCA, una perfida Gina Gershon, gli promette il decollo in tv a patto però che trovi, entro una settimana, dei volti celebri che gli facciano da sponsor e si faccia produrre mille unità dell’oggetto in questione. Jack accetta la sfida, anche se sa che la partita l’ha già persa in partenza. Un elmetto di plastica che sembra imitare quello dei centurioni romani, una t-shirt con la scritta See Ya, Punk e il disegno di un volto che ricorda quello di – ma non è – Bin Laden, un paio di shorts di lycra e tanta speranza: lo strambo eroe all american, un salesman porta a porta dei giorni nostri, deve lanciarsi in una corsa contro le tempistiche della catena produttiva e dentro i meccanismi dello showbusiness in combutta con lo star system.

«The Trainer» di Tony Kaye
«The Trainer» di Tony Kaye, conferenza stampa (Credits: Mirko Pizzichini / Rome Film Fest)

Vito Schnabel e Tony Kaye non si incontrano per caso: figlio del regista Julian – che nel 2018 firma il documentario su Van Gogh At Eternity’s Gate –, Vito dice a Tony che ha una sceneggiatura e che vuole che sia lui a dirigerla, e lui accetta senza esitazioni: questi i prodromi della commedia più strampalata dell’anno. Vito è giovane, ricco e scrive anche bene, ma ha bisogno dello sguardo di un visionario; Tony non ha una lira, è grande, ha fama di disturbatore dei piani produttivi, è da vent’anni che accumula progetti che non decollano e ora più che mai ha bisogno della sua fiducia. A chi Jack Flex assomigli, se più a Schnabel o a Kay, è difficile capirlo, ma allargando il campo diventa chiaro che questo mitomane esaltato – che si presenta come un santone del fitness e inventore di un attrezzo rivoluzionario – è la caricatura dell’americano medio, uno con le ambizioni da impresario, la fede di un Messia e gli orizzonti di un cucciolo di tigre nato cieco. Ma consapevoli o meno, scommettere su se stessi è come una partita di poker – per vincere bisogna bleffare fino all’ultimo – o un match di wrestling – fingersi morti è il modo migliore per disarmare l’avversario.

«The Trainer» di Tony Kaye
«The Trainer» di Tony Kaye, conferenza stampa (Credits: Mirko Pizzichini / Rome Film Fest)

Se di onestà parliamo, Jack Flex è una frode. Ma la realtà non esiste, è tutta questione di fiducia: per vendere il suo marchingegno l’aspirante tycoon deve vendere, prima di tutto, un’immagine. Seducenti menzogne e verità dissimulate sono le assi del calvario ad ostacoli che l’Icaro fulminato percorre. In corso d’opera le sue ambizioni trovano in Bee, la bella italo-americana addetta alla scelta del catalogo di RVCA, la trasfigurazione perfetta dell’amor cortese: in chiamata Jack rimane incantato dalla sua voce, e il loro incontro, la fiducia che lei ripone nel cantarne le gesta – come quando convince il consiglio direttivo che per le mani hanno una gallina dalle uova d’oro – sancisce l’approdo del re folle alla derealizzazione. Pedina Lenny Kravitz, si approfitta dell’amicizia di sua madre col proprietario di una nota palestra a West Hollywood per ossessionare i clienti famosi col suo casco, convince a collaborare Paris Hilton sostenendo che una percentuale dei ricavati andrà in beneficenza, presenta il socio in affari sotto falso nome… Il tutto in buona fede, perché Jack Flex è una frode sì, mai uno stronzo. Le bugie però hanno le gambe corte.

«The Trainer» di Tony Kaye, conferenza stampa (Credits: Mirko Pizzichini / Rome Film Fest)

Non importa quanto veloce corra Jack, che si identifica spesso in eroi mitologici: lui sa che “Achille conosceva il suo destino, ma in guerra ci è andato lo stesso”. Schnabel riduce la battaglia tra Achei e Troiani nel conflitto di un’anima semplice con un paradigma affettato, ipocrita e interessato solo al rendiconto di fine giornata; la sensibilità cinematografica di Kaye dona invece profondità emotiva a un personaggio spesso così idiota da offendere pure gli americani, e qui mi fermo. Jack, tutto muscoli e chiacchiere, nato sotto il segno del Leone, è alla fine un cucciolo bastonato: consapevole dei suoi errori, la sua speranza spesso vacilla, vuole riparare ai torti inflitti alla sua donna di Long Beach, dopo il litigio con la madre si preoccupa perché non risponde al telefono. L’ansia da prestazione, la fatica accumulata e la stanchezza che sopraggiungono dopo una settimana di bugie, mettono a rischio la presentazione in tv; il finale che ritorna sul proemio è poi è una dolce amara constatazione dei costi insostenibili che accompagnano la costruzione di un business di pari passo con la costruzione di un’identità: premia più una onesta resa alla sconfitta che non una conquista dissoluta della fama.  

«The Trainer» di Tony Kaye
«The Trainer» di Tony Kaye, conferenza stampa (Credits: Mirko Pizzichini / Rome Film Fest)

Dal sodalizio con Schnabel, Kaye rende un eroe del terzo millennio che presenta tutte le virtù, ingenuità inclusa, dei ridicoli donchisciotteschi del romanzo barocco. “Voglio essere un uomo con la spada” dice Flex a inizio film, e The Trainer è l’avventura di un cavaliere di Beverly Hills che, invece del tiro di spada, spara solo fesserie. Nonostante l’amore per Hollywood, è una post-Hollywood quella che le sue immagini raccontano: naturalizzato statunitense, la formazione europea di Kaye non risparmia sarcasmo alle riscritture della mitologia classica – tradotta qui nel classico maschio che “thinks about the Roman empire” troppo spesso, e fa il verso agli americani che ricevono la cultura classica tramite parodie di kolossal alla Troy, la loro ignoranza in materie storico-geografiche e la tendenza alla mispronounciation di termini che nemmeno conoscono. Gli effetti speciali – le animazioni in 2d, le didascalie cafonal da algoritmo AI, gli scarabocchi scintillanti – e le note di It Ain’t Over ‘Til It’s Over – altra gentile connessione di Kravitz – personalizzano uno scrapbook dal trattamento iperrealista. Una leggenda esilarante dove il debutto di Vito Schnabel brilla come il sole della California ad agosto, anche se a bucare lo schermo è una magnifica Julia Fox che, armata di un french lunghissimo e outfit-tributi agli anni Sessanta italiani – quelli filtrati da Nine di Rob Marshall, però – restituisce una Beatrice esilarante tutt’altro che stilnovesca.  

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