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intervista a cura di pavel belli micati

Quella che segue è una non-intervista. Abbiamo guardato le ultime Prove d’ascolto realizzate da Okta Film e non abbiamo potuto evitare di chiederci che cosa ne pensiamo noi, oggi, del cinema – in varie accezioni della parola e sotto diversi punti di vista del mezzo artistico. Prendete sul serio le nostre parole, ma con moderazione.

Okta film, che in questo 2024 è andata a Cannes a presentare in anteprima I dannati, ultima opera di Roberto Minervini, ha inaugurato da un anno e mezzo le Prove d’ascolto, interviste a figure d’interesse internazionale e dai molteplici interessi. Maria Nadotti, giornalista, saggista e documentarista, ha accompagnato i primi quattro episodi con interviste a bell hooks, autrice e attivista statunitense recentemente scomparsa, a Bayo Akomolafe, filosofo e autore nigeriano, poi ancora a Silvia Federici, sociologa e filosofa, e infine ad Alessandro Petti e Sandi Hilal architetti uno italiano l’altra palestinese attivi nell’ambito sia politico sia umanitario. Per il quinto episodio, cambia la voce narrante: è Alessandro Comodin a condurre un’intervista a Roberto Turigliatto, critico cinematografico piemontese, curatore al Museo del Cinema di Torino di notevoli retrospettive, selezionatore a Festival quali Venezia, Taormina e Locarno, e tra i fondatori, assieme a Steve Della Casa e Giorgio de Silva, del mitico circolo torinese Movie Club.

«Prove d’ascolto» di Okta Film

L’intervista, aperta da un colorato panorama di papaveri rossi, comincia con un invito al ricordo: «Da dove vieni Roberto? Vieni dalla campagna, dalla città, cosa ti ricordi di quando eri bambino?» Comodin chiede. «Sono nato in un piccolo villaggio a trenta chilometri da Torino. Quello che ricordo di quest’infanzia sono proprio le fughe nei boschi», risponde Turigliatto. Classico incipit comodiniano, verrebbe da dire, se non che la provincia qui è quella piemontese e anche dal ‘villaggio’ più remoto nel Gran Paradiso è più facile emanciparsi che non dalla periferia est della capitale o dalla campagna pistoiese. «Questo sentimento di fuga è forse anche un atto di ribellione, che non mi ha mai abbandonato», segue precisando Turigliatto, «è anche un sentimento di non essere catturato da nessuno, di nascondermi». E c’è da crederlo, perché la miglior critica, per essere buona, ha bisogno di prendere le distanze, essere lontana sia fisicamente che emotivamente, dal suo oggetto di indagine.

«Nell’età del cinema, dall’infanzia fino ai vent’anni, attraverso il cinema, in questo riparo costituito dalla sala, potevi capire molte cose, avere delle sensazioni». Per Turigliatto, classe ‘51 il cinema è l’esperienza della sala, del formato del grande schermo. Per noi giovani critici, un po’ più acerbi, è lo stesso?

«Prove d’ascolto» di Okta Film

Chiediamolo a Virginia, redattrice di uncle yanco. Virginia, qual è il tuo primo ricordo del cinema?

Virginia: Ciao Pavel, grazie per questa domanda. Vorrei poterti raccontare una bellissima storia romantica sulla prima volta in cui mi sono imbattuta in un film della nouvelle vague e ho capito che cosa fosse davvero il cinema, ma la realtà è molto più scadente, come dice qualcuno in un film di Sorrentino. Il mio primo ricordo è Alla ricerca di Nemo (2003), film animato Pixar: sono andata al cinema per la prima volta quando avevo tre anni e stando ai racconti di mio padre, mi muovevo per la sala cercando di inseguire i pesci che vedevo sullo schermo. Potrà non essere il ricordo più poetico del mondo, ma credo sia abbastanza indicativo della presa che il cinema ha sempre avuto su di me e quanto riesce a trascendere la realtà fisica – o la quarta parete, se vogliamo. Se parliamo di una percezione del cinema più “matura”, credo di aver capito di voler lavorare con questo modo all’incirca quando avevo diciotto anni, quando ho capito che oltre a vedere i film, potevo scriverne e parlarne e, perchè no, organizzare vere e proprie proiezioni.

«Pierrot le fou» di Jean Luc Godard

Per Turigliatto scrivere è una grande fatica, e lo capisco bene, perché pure per me non è semplice. La passione per il cinema però lo porta a diventare programmatore, così da condividere l’esperienza del cinema con gli altri. Io non le conto le volte in cui ho provato a fare dei cine club, perché ogni volta qualche mio amico lo ricorda come una tortura atroce. Sono sicuro che anche tu hai fatto lo stesso, ricordi un caso clamoroso in cui hai costretto i tuoi amici a guardare qualcosa che solo a te piaceva?

Virginia: Certo, è qualcosa che succede con cadenza regolare, ti direi anche un paio di volte alla settimana – se vuoi posso farti una lista precisa, ma sicuramente Un tram che si chiama desiderio (1951), La mala educación (2004), Zodiac (2007) e, un tempo, The Dreamers (2004) occupano posti di rilievo in questa classifica. So bene che un buon critico dovrebbe consigliare film in base al target o, se si tratta di amici, in base ai gusti delle persone. Sono però dell’opinione che la critica, oltre che dare un punto di vista su un film, debba anche fornire gli strumenti e i mezzi per comprendere il cinema, in tutte le sue accezioni. Possiamo vedere un semplice road-trip, quando guardiamo Y tu mamá también di Cuarón, oppure andare a scovare la vena polemica nei confronti della società messicana filostatunitense dei primi anni duemila, giusto per farti un esempio. Un film può presentare diverse chiavi di lettura o interpretazioni, ed è compito della critica aprire a nuove prospettive e sguardi. Questa concezione di fondo è quella che, come anche a te è capitato, mi ha spinta a organizzare rassegne e proiezioni tematiche, accompagnandole a momenti di dibattito o discussione con il pubblico. Banalmente, proprio Uncle Yanco nasce con l’idea di porre l’attenzione su questo aspetto del cinema, inteso come esperienza collettiva: è difficile pensare a una forma dʼarte e di intrattenimento più accessibile e popolare ed è proprio la “pervasività” di questo mezzo a rendere un film uno strumento particolarmente propenso a scatenare dibattiti e scambio di opinioni.

«The Dreamers» di Bernardo Bertolucci

«Questo modo di fare cinema è perduto per sempre», dice Turigliatto in merito alla dimensione di arte popolare degli anni Sessanta e Settanta per un pubblico variegato che contemporaneamente aveva esigenze estetiche nutrite dalle grandi produzioni di Hollywood ma anche da quelle più sperimentali come il cinema giapponese di Ozu. Se ho capito bene, Turigliatto parla di quel tipo di cinema che risponde all’esperienza cinematografica, ossia quella narrazione che sonda, non senza ironia, i limiti tra ideale ordinario e reale fantastico. Ecco, a tal riguardo, non credo che questa dimensione sia persa, piuttosto penso che sia oscurata dal desiderio estetico di imitazione. Tu che pensi Virginia?

Virginia: Sicuramente, una parte di questo modo di fare cinema, si è andata a perdere progressivamente negli anni. Un conto era seguire un modus operandi che mirava solo ad accontentare il pubblico, con l’obiettivo di incassare e guadagnare; un conto era rispondere alle esigenze di una casa di produzione che, per produrre un film d’autore con tutte le richieste del caso, si ritrovava a dover produrre contemporaneamente i classici film «da grande pubblico», quelli che, in parole povere, potevano sbancare al botteghino e consentire di recuperare abbastanza introiti per consentire ad alcuni autori di portare avanti la propria sperimentazione cinematografica. I meccanismi di crowd pleasing, di ricerca del favore e del consenso del pubblico, sono sempre esistiti e dubito che scompariranno mai; adesso ne vediamo l’effetto in maniera molto più “concreta” solo perché il cinema, attraverso le piattaforme streaming, è entrato nel salotto di casa nostra. Scorrere un catalogo Netflix o Prime Video che sia ci pone di fronte a una quantità pressoché infinita di titoli – quello di ricreare prodotti simili a quelli che già hanno avuto successo è un modo di fare cinema che si è intensificato nella produzione e nei numeri, ma non nelle dinamiche, già esistenti.

«Good Morning» di Yasujirō Ozu

Uccise la famiglia e andò al cinema, il titolo di un film del ’69 di Júlio Bressane che per Turigliatto rappresenta quel sentimento di fuga dall’ordinario e in un fantastico immaginario. Come è evoluto il tuo rapporto con la realtà nella tua esperienza al cinema?

Virginia: Non so darti una risposta precisa a questa domanda, anche se è qualcosa su cui rifletto spesso, soprattutto quando mi ritrovo a dover scegliere i film per una rassegna o programmare proiezioni. Mi capita di sentire commenti sul fatto che il cinema dovrebbe essere intrattenimento e non necessariamente un luogo dove si raccontano storie tristi, ma si tratta di una concezione forse un po’ superata, considerando che già Woody Allen negli anni Settanta ci faceva dell’ironia sopra. Il cinema continua ed è anche una fuga dalla realtà, e la questione non sta tanto nel modo in cui il pubblico usufruisce di questo strumento, ma forse andrebbe fatto un discorso più ampio che coinvolge i meccanismi di marketing e pubblicità di un film. Non critico chi sceglie di guardarsi un film meno impegnativo – ma anche chi si approccia al cinema con questa idea di fondo; il problema è quando Prime Video basa l’intera campagna marketing di un film girato in pellicola, diretto da un premio Oscar mai uscito in sala, sul fatto che uno dei co-protagonisti è il bellissimo Jacob Elordi. Forse andrebbero riviste le modalità con cui il cinema viene proposto, per fare un ragionamento su come questo viene recepito.

«Uccise la famiglia e andò al cinema» di Julio Bressane

Turigliatto segna al 1950, l’uscita nelle sale di Rio Bravo, il tramonto di quella dimensione dell’esperienza cinematografica. Daney trovava negli anni Novanta che quel cinema moriva da quarant’anni. Bando alla nostalgia, è più facile compiangere per chi l’ha vissuto un passato come l’esperienza collettiva del kolossal che non tornerà più, che non sognare un ritorno a tale esperienza per noi che il cinema lo abbiamo vissuto sin dall’inizio in maniera individuale. Io però non credo che il cinema non possa più unire, tu che ne pensi?

Virginia: Capisco che cosa intendi, quando parli di dimensione intellettuale, ma non sono troppo d’accordo con te! Mi rendo conto che ormai la stagione delle grandi onde innovative sia passata e finita; non ci saranno più nouvelle vague o Dogma 95 ad animare le varie stagioni cinematografiche. Credo che il cinema, sia nel processo di realizzazione che di fruizione, viva una doppia natura, ambigua e anche opposta: predilige una forma di attività individuale, centrata sulla figura del regista o sulla star del film, ma al tempo stesso non potrebbe esistere senza un’enorme squadra tecnica alle spalle, per quanto non gli si dia credito. Allo stesso modo, chi oggi vuole fare cinema deve muoversi autonomamente e indipendentemente, ma è difficile che qualcosa venga realizzato in maniera completamente individuale. L’esperienza in sala è un po’ uno specchio di quello che troviamo nel dietro alle quinte di un film: viviamo e apprezziamo una pellicola in base ai nostri sentimenti e punti di vista, ma nel momento in cui si entra in una sala buia, dove tutti siamo posti sullo stesso piano percettivo e sensoriale, viviamo comunque un’esperienza collettiva e condivisa. Christian Metz parlava del cinema come strumento di uguaglianza, in grado di annullare disparità e differenze che esistono fuori dalla sala proprio perchè pone lo spettatore in una condizione di «sottomotricità», data dalla costrizione volontaria di restare seduti per la durata di una pellicola, e «sovrapercezione»: al cinema, si può solo guardare lo schermo e questa attività è alimentata dal buio che circonda tutto. Se, da una parte, la storia del cinema è già stata scritta, dall’altra niente ci impedisce di riproporla attraverso esperienze collettive di produzione e di visione.

«Rio Bravo» di Howard Hawks

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