approfondimento a cura di emanuela marotta
Architettura e cinema sono una coppia di forme d’arte davvero interessante. Il matrimonio tra i due è inevitabile. Penso al cinema come all’arte del tempo. L’architettura è l’arte dello spazio. Costruisce anche il nostro senso di vuoto. Ci fa vedere il nulla e l’assenza in un modo che, senza di esso, ci sarebbe quasi invisibile. Una volta che ho scoperto l’architettura di Columbus, volevo profondamente che facesse parte del primo film che ho realizzato.
Kogonada

quando il cinema e l’architettura si incontrano
Casey vive con la madre, una tossicodipendente in via di recupero, in una cittadina poco conosciuta del Midwest, infestata dalla promessa del modernismo. Jin, un visitatore dall’altra parte del mondo, si prende cura del padre morente e separato. Appesantiti dal futuro, trovano sollievo l’uno nell’altro e nell’architettura che li circonda. Girato a Columbus, Indiana, una tenera meditazione su amore, perdita e architettura è l’esordio alla regia dello scrittore/regista Kogonada. Con le interpretazioni acclamate dalla critica di John Cho e Haley Lu Richardson nei panni di Jin e Casey, Columbus presenta anche un forte cast di supporto che include Parker Posey, Rory Culkin e Michelle Forbes.

Quando un rinomato studioso di architettura si ammala improvvisamente durante un tour di conferenze, suo figlio Jin (John Cho) si ritrova bloccato a Columbus. Jin stringe amicizia con Casey (Haley Lu Richardson), una giovane appassionata di architettura con una vita familiare travagliata. Man mano che la loro intimità si sviluppa, Jin e Casey esplorano sia la città che le loro emozioni contrastanti. In una scena centrale del film, particolarmente riuscita, Casey e Jin si trovano davanti all’Irwin Conference Center di Eero Saarinen e lui la sollecita a lasciar perdere tutte le nozioni teoriche e a spiegargli che cos’è che la emozioni quando guarda il palazzo. In quel momento il punto di vista cambia: non siamo più alle spalle di Jin e Casey ma dentro il palazzo e il vetro si frappone tra noi e la protagonista. Casey si anima, diventando muta. Non abbiamo davvero bisogno di sapere cos’è di preciso che tocchi le sue corde: dobbiamo solo concentrarci sulla sua emozione. Osserviamo le sue labbra muoversi e le sue mani gesticolare forme e dimensioni. Casey contempla questo edificio come se fosse una persona amata. Non sentiamo perché ama l’edificio, ma osserviamo la gioia e il piacere che le procura. In questo momento la colonna sonora di sottofondo si gonfia, proprio per compensare l’improvvisa mancanza della voce di Casey.

Con una nota di empatia nei confronti delle complessità che vivono le famiglie, il film del regista esordiente Kogonada si svolge come una conversazione delicatamente fluttuante, profondamente coinvolgente e lirica tra due anime perse. Attento alle nozioni di comunità e classe e alla funzione egualitaria che l’architettura può svolgere, il film, sebbene guardi anche all’alienazione, è più finemente sintonizzato sui momenti, le circostanze e gli ambienti che avvicinano le persone.
La classe è quindi un tema centrale in Columbus e Kogonada esplora la dicotomia tra le istituzioni accademiche, i magnifici edifici e i cittadini della classe operaia, che vivono in periferia. L’architettura spesso offre l’illusione di democrazia e inclusione, ma a Columbus, gli edifici sembrano davvero progettati per tutti. La città vanta una lista di circa 60 architetti di alto profilo che hanno contribuito a progetti in città e non a caso viene, infatti, definita la «mecca del Modernismo» per via dei tanti edifici che ospita, realizzati da archistar. Pochissimi di questi architetti sono donne e, per quanto sfortunata, questa situazione riflette lo squilibrio che domina questa disciplina. L’architetta Deborah Berke, nominata prima preside donna della Yale School of Architecture, è anche una delle poche donne che possono affermare di aver costruito in città. Casey spiega la sua passione per l’architettura a Jin, affermando a un certo punto come avesse assistito alle lezioni di Berke durante eventi speciali a Columbus, come avesse incontrato l’architetta e come avesse persino comunicato con lei riguardo a un possibile tirocinio a New Haven. Alla fine del film, Deborah Berke, l’eroina invisibile della vita di Casey, proporrà una generosa offerta che aiuterà Casey nella decisione che le cambierà la vita. Che tra tutti gli edifici della città Kogonada scelga la banca progettata da Berke come ossessione personale di Casey è un gesto decisamente simbolico. Un modo per riassumere la situazione è che il Columbus di Kogonada, in quanto progetto etnografico neorealista, presenti un profondo sottotono femminista.

Nel suo sottotesto, il film pensa all’equità in termini di genere e razza. Questa situazione ha senso data l’attenzione intenzionale di Kogonada sui margini e le marginalità. La disuguaglianza di genere è un problema nei circoli di architettura, ma Hollywood ha i suoi problemi impliciti ed espliciti su razza e razzismo e non è un caso che Kogonada abbia dichiarato apertamente come nel processo di realizzazione del film abbia dovuto combattere contro una forte resistenza da parte di potenziali produttori che si opponevano alla sua decisione di rappresentare un personaggio appartenente a una minoranza etnica come uno dei protagonisti del film.

Mi vengono in mente pochissimi film che catturano lo spirito del luogo in modo così profondo come Columbus, un film che esplora il peso che i bambini sentono nei confronti dei loro genitori, in particolare il sentimento di imminente assenza. La città è una testimonianza di questa ricerca per trovare un significato nella costruzione dello spazio, nella relazione tra assenza e presenza, nell’estetica del vuoto. È anche un film sul significato e il valore dell’architettura in termini umani. Come ci relazioniamo con gli edifici e con il nostro ambiente.

Appena Casey e Jin si incontrano sembra chiaro che saranno destinati a innamorarsi. Ma la loro intesa è come l’edificio di fronte al quale sono seduti: il municipio progettato da Edward Bassett, che ha due strutture in mattoni che corrono parallele e che non si incontrano mai. A tratti ricorda una “non-storia” d’amore come quella messa in scena da Sofia Coppola in Lost in Traslation. Nonostante l’intesa palpabile, Kogonada preferisce risolvere la relazione attraverso la sottrazione. Votato alla sottrazione, così come le architetture moderniste, Columbus evita le banalità e i classici cliché delle commedie romantiche, d’altronde, come dice l’architetto Mies van der Rohe, less is more.