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recensione a cura di sara carena

Tutti noi abbiamo almeno una volta nella vita sentito parlare di Non aprite quella porta: non importa che si trattasse del film originale o uno degli innumerevoli remake, tutti sanno di cosa si sta parlando. Il primo – The Texas Chainsaw Massacre, diretto da Tobe Hooper – uscì nel 1974 e quest’anno festeggia il suo 50esimo anniversario; nonostante il tempo avanzi, resta e resterà sempre uno dei più importanti, intensi e fondamentali film horror della storia del cinema. La vicenda raccontata è molto semplice; il titolo originale – The Texas Chainsaw Massacre – ci informa su tutto ciò che c’è bisogno di sapere ancor prima di guardarlo. Un gruppo di ragazzi, Sally, Franklin, Jerry, Pam e Kirk, sta viaggiando su un van in giro per il Texas; per una serie di sfortunati eventi saranno vittime dell’ormai noto Leatherface, un uomo armato di una motosega e con una maschera fatta di pelle umana, appartenente a una famiglia di pazzi cannibali che ha come hobby la profanazione di tombe e la costruzione di spaventapasseri fatti di resti umani, oltre che banchettare con carne umana. 

«Non aprite quella porta» di Tobe Hooper (Credits: IMDb)

La trama del film potrebbe apparire alquanto scontata se confrontata con la produzione orrorifica contemporanea o comunque molto recente. Così, ovviamente, non era per il periodo in cui è stato distribuito. Qualche anno prima del 1974 era infatti uscito il primo film di George RomeroLa notte dei morti viventi (1968), film con cui si crea un modo diverso di fare horror. Se fin dalle origini la maggior parte dei film horror era ambientata in epoche passate e luoghi geograficamente distanti dagli Stati Uniti, Romero trasporta paura e orrore in epoca contemporanea e nel quotidiano, cercando anche di inserire messaggi politici molto forti, il tutto con un budget ridotto e attori sconosciuti. Ciò che fa Romero ha un così forte impatto che alcuni di questi elementi vengono usati per dar vita al New Horror, un nuovo filone che tenta in tutti i modi di svecchiare l’horror a cui il pubblico era abituato. Questa lezione fondamentale viene messa in atto da Tobe Hooper proprio con Non aprite quella porta. 

Non aprite quella porta
«Non aprite quella porta» di Tobe Hooper (Credits: IMDb)

Fin dalla prima scena ci si rende conto di trovarsi di fronte a un prodotto nuovo, qualcosa di sconvolgente per l’epoca. Un messaggio ci avvisa su ciò che stiamo per vedere facendoci credere che si tratti di un reale fatto di cronaca (in realtà il film si ispira in parte alla storia di Ed Gein, serial killer americano); si alternano scene buie e flash, seguiti da immagini riconducibili alle parti di un cadavere ormai in decomposizione. Appare poi, alla luce del sole, il volto completamente putrefatto di un cadavere attaccato a un corpo impalato in un cimitero. La voce fuoricampo spiega che sono state profanate delle tombe e capiamo che quella è il risultato di tali azioni. 

Non aprite quella porta
«Non aprite quella porta» di Tobe Hooper (Credits: IMDb)

A partire dal titolo lo spettatore è infatti indotto a pensare che si tratti di un fatto di cronaca: si parla esplicitamente di massacro e viene citato un luogo esistente e appartenente a una realtà vicina allo spettatore americano che riesce persino a riconoscere i luoghi in cui si svolge la tragedia. Non si è più davanti ad ambientazioni misteriose e distanti, si è persa quell’aura di mistero che aleggiava intorno alle icone horror. Qui, sia i protagonisti, sia i cattivi sono persone qualunque, membri di una famiglia americana, quanto di più verosimile e vicino alla realtà esista. La paura, l’orrore, passano quindi dall’essere incastonati all’interno di figure mistiche ad essere presenti in ognuno di noi.

Non aprite quella porta
«Non aprite quella porta» di Tobe Hooper (Credits: IMDb)

Da qui in poi si svilupperanno ulteriori filoni horror: secondo alcuni Non aprite quella porta è considerato il capostipite degli slasher, sebbene qualche elemento sia già presente in film antecedenti come Reazione a catena (1971) di Mario Bava. È però sicuramente da qui che inizia ad essere evidente quella ossessione per il gioco coi corpi che caratterizzerà gran parte della produzione horror degli anni ’80 con la nascita del body horror. Ma non solo: importante è la figura di Sally, unica sopravvissuta del gruppo. Sally è quella che viene definita final girl, ovvero la ragazza (quasi mai un ragazzo) che alla fine di un film horror, nonostante tutti i suoi amici siano stati uccisi e lei torturata, riesce a scappare e a sopravvivere. La final girl e le figure femminili che sono vittime di massacri sono solitamente torturate (e nel secondo caso addirittura uccise) molto più brutalmente e più a lungo dei compagni uomini, che invece tendono ad essere uccisi molto più sbrigativamente.

Il grande successo riscosso dal film ha permesso che fossero prodotti numerosi prequel, sequel e remake e che Leatherface diventasse una vera e propria icona del cinema horror.

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