approfondimento a cura di alberto michelotti
Prima del 1988, anno in cui la Corea del Sud aprì il proprio mercato cinematografico ad Hollywood, il governo aveva giocato un ruolo cruciale nello sviluppare una politica protezionista e di supporto per i film nazionali, cercando di sfidare il potere e la dominanza dei film stranieri che venivano proiettati nelle sale coreane. La legge sul cinema del 1962 dichiarava che le case di produzione dovessero ottenere una licenza governativa che bypassava direttamente le produzioni indipendenti. Negli anni Settanta questa legge, unita a una dura censura da parte del governo, portò ad un drastico calo di spettatori, gravando molto sugli incassi annuali delle sale. Tra il 1973 e il 1986 il cinema coreano ha vissuto il suo più grande periodo depressivo della storia.
Lee Jin-Keun, presidente della Korean Motion Picture Promotion Corporation (MPPC) ha dichiarato che «La nostra cultura tradizionale dovrebbe essere unita a quelle straniere per creare una cultura più brillante; i film non sono fatti per alcuni individui o precisi gruppi di persone, ma per un pubblico. Di conseguenza, dovrebbero poter accontentare tutti».1 Inoltre, sosteneva che i valori culturali coreani non dovevano essere criticati e che l’operato del governo non dovesse essere messo in discussione. La legge fu modificata varie volte, fin quando fu nel 1988 finalmente le case di distribuzione estere non dovettero più affidarsi a una coreana per distribuire i propri film nel Paese, evitando anche così tasse d’importazione e varie restrizioni. Il numero di film esteri distribuiti nelle sale cinematografiche coreane passò da un numero che si aggirava intorno ai trenta per anno, a inizio 1980, fino a più di duecento per anno nel 1989.
I professionisti del settore in Corea2 vissero l’ingresso di Hollywood nel loro Paese in modo ostile e negativo, prevedendo una maggiore competizione nel mercato cinematografico. Inoltre, il governo, che fino a quel momento aveva mantenuto un controllo capillare in materia di censura e di distribuzione, si arrese, abbandonando gradualmente anche le sovvenzioni economiche per le produzioni locali. L’eliminazione della cosiddetta «tassa di importazione» faceva in modo che distribuire i film esteri avesse lo stesso rischio di perdita monetaria di quello di una produzione locale. Quindi, in poche parole, il cinema coreano non sparì dalla circolazione, proprio perché sempre nel corso degli anni Ottanta un nuovo provvedimento eliminò il sistema di licenze per le case di produzione, favorendo così la nascita del cinema indipendente: dalle 20 case di produzione che si contavano all’altezza del 1984 si passò, infatti, ad averne 98 nel 1989.
La nascita di una serie di nuove case di produzione, sostanzialmente indipendenti, è anche causa e conseguenza dell’affermazione di una generazione di autori spinti da un profondo impegno sociale. Questi registi ora sono conosciuti come i fondatori della Korean New Wave: una nuova generazione di filmmaker, all’epoca composta solo da artisti sotto i trent’anni, che portò una boccata d’aria fresca nell’industria cinematografica. La maggior parte degli autori di questa onda culturale iniziò a muovere i primi passi nel mondo del cinema in veste di critici oppure organizzatori di cineclub e nel tempo libero producevano i loro film con mezzi molto elementari, in 16mm o in Super8.
In questa prima ondata di artisti troviamo Jang Sun-woo, che considerava il cinema uno strumento politico e sociale grazie al quale poteva comunicare direttamente con gli spettatori, oltre a esprimersi in ambito artistico. Diversa la posizione di Lee Mung-se che vedeva il film come un puro mezzo espressivo, un posto per sperimentare nuovi linguaggi e nuove tecniche. L’idea iniziale di questa serie di autori era di raccontare in maniera realistica la società contemporanea trattando temi molto caldi in quel periodo: oppressione politica, sentimenti anti-americani, movimenti studenteschi, il cambiamento dello stile di vita nelle grandi metropoli e nei centri più industrializzati ma anche l’oppressione femminile e i conflitti di classe.
Da un punto di vista tecnico, l’utilizzo del long take è frequente e viene manipolato consapevolmente nella composizione dello spazio e della profondità. Inoltre, al fine di aumentare il carico di realismo all’interno della storia, non di rado vengono impiegate riprese documentaristiche in un contesto narrativo fittizio, di fiction. Il periodo che va dal 1996 al 2000 può essere considerato come la prima fase del boom del nuovo cinema coreano, favorito anche da fondi di finanziamento che permisero una crescita del budget riservato al cinema. Questi nuovi fondi arrivano grazie all’ingresso nel mondo della produzione di grandi potenze industriali, denomniate chaebol: grandi compagnie della Corea del Sud come Samsung, LG, Daewoo vedono il cinema come uno strumento commerciale molto redditizio e finalmente danno la spinta economica necessaria per rimettere in modo le produzioni nazionali.
Intanto il primo governo democratico della storia del Paese sicuramente aiuta nella ripresa del cinema, compreso quello indipendente, inaugurando, nel 1996, il Festival di Busan. L’intento della New Wave sudcoreana è stato quello di portare i film nazionali all’attenzione della critica internazionale, che aveva sempre snobbato questa cinematografia, e all’élite culturale del Paese, generalmente più interessata alla letteratura che al cinema. La seconda generazione di autori e filmmakers della New wave coreana però è quella che più ha coinvolto pubblico e critica; costituita da autori appassionati di cinema, ma non ancora presenti nel settore professionale, verso la fine degli anni ‘90 iniziano a proporre temi ampiamente differenti rispetto alla prima ondata. Fra il 1996 e il 2000, infatti, debuttano con le proprie opere i registi più famosi e riconosciuti a livello internazionale: Kim Ki-duk, Lee Chang-dong, Park Chan-wook, Bong Joon-ho.
Il cinema di Park Chan-Wook è uno di quelli più apprezzati sia in Sud Corea che nel resto del mondo, grazie all’enorme successo di Oldboy nel 2003, parte della nota Trilogia della vendetta, insieme a Sympathy for Mr. Vengeance (2002) e Lady Vengeance (2005). Il suo cinema è cupo e violento, con dosi di thriller, ma comunque in grado di arrivare al grande pubblico. Kim Ki-duk, invece, punta di più su un cinema tipicamente indipendente, lavorando su temi più introspettivi, riflessivi e personali: esordisce nel 1997 con Wild Animals, nel 2000 viene invitato alla mostra del cinema di Venezia con L’isola e ci ritornerà vincendo il Leone d’oro con Pietà nel 2012. Lee Chang-dong, con soli 6 film all’attivo, risulta uno dei più importanti autori dell’ultimo ventennio; lavorando su un cinema drammatico di forte impatto, unisce il minimalismo estetico a una visione introspettiva e solitaria dell’essere umano e della società contemporanea. I suoi lavori principali sono Peppermint Candy (1999), Poetry del 2010, vincitore della migliore sceneggiatura a Cannes, e Burning del 2018. Mentre Bong Joon-ho merita una parentesi più approfondita, altri autori da ricordare e inserire in questo movimento sono Lee Hyung-seung, Hur Jin-ho, Kim Ji-woon, Im Sang-soo.
Ritornando alla fine degli anni ‘90, è in quel periodo che avviene la vera rinascita economica del cinema coreano, grazie alla produzione di vari blockbuster. Shiri (1999) di Kang Je-gyu ne è il film simbolo, diventando uno degli incassi più importanti della storia del cinema sudcoreano; fra le ragioni del grande successo ci furono l’incontro tra il cinema d’azione con il melodramma unito anche al tema del conflitto fra le due Coree. Il film, che ebbe un enorme successo, riuscì pure a battere gli incassi di Titanic di James Cameron (1997) in Sud Corea. Con un costo complessivo da 3 milioni di dollari, riuscì a incassare 26.5 milioni, mentre Titanic solo $4,599,796, a fronte di un budget molto maggiore, 200 milioni di dollari.4
L’idea del blockbuster, comunque, resta molto diversa rispetto alle produzioni medie hollywoodiane, che in media si attestano intorno ai 100 milioni di dollari per un singolo film. In Sud Corea, il massimo budget speso resta nettamente inferiore e si configura in maniera proprio diversa la definizione stessa di «blockbuster» tra i due paesi. Mentre negli USA il termine viene usato per indicare un grande successo commerciale al botteghino, dovuto anche a numerose campagne pubblicitarie, in Corea del Sud resta semplicemente un film ad alto budget, con star locali e grandi effetti visivi e speciali. Non tutti i blockbuster coreani raggiungono cifre di incasso ottimali e rimangono alte le differenze di budget delle produzioni: mentre negli USA si superano i 100 milioni di dollari, in Corea del Sud si arriva a malapena a 12 milioni – escludendo eventuali co-produzioni internazionali.
Il rapporto tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud è sempre stato importante, non solo a livello culturale, ma soprattutto da un punto di vista politico e sociale, dovuto anche al periodo di occupazione militare statunitense durante la guerra civile tra Corea del Nord e Corea del Sud. Ovviamente, questo rapporto così stretto con gli USA ha portato anche a un confronto tra cinema hollywoodiano e coreano. Andrew Higson, nel suo libro «The concept of national cinema», sostiene che a causa della globalizzazione si sia creato un paradosso: un film per essere nazionale e popolare deve necessariamente configurarsi come «internazionale», adottando quindi standard globali. Questo concetto risulta ancora più evidente con l’approdo nel mondo dell’audiovisivo delle piattaforme streaming di Netflix e Amazon Prime Video, che tengono l’obiettivo di rendere veri e propri successi mondiali alcuni prodotti locali. Esistono, comunque, collaborazioni tra il cinema d’autore e quello di massa, che consentono di realizzare grandi film in grado di portare grandi introiti alle casse dei cinema, oltre che a premi prestigiosi ad autori e professionisti del settore. I cineasti e le compagnie sono arrivati a comprendere l’idea che un film possa essere contemporaneamente mezzo di intrattenimento e forma d’arte espressiva; unione che consente a vari registi di diffondere il valore culturale del cinema coreano in tutto il mondo, utilizzando temi narrativi differenti e innovativi.
1 «Our traditional culture should be mixed with foreign cultures to create a more brilliant culture; that motion pictures are not for individuals or certain groups but for the public interest and, therefore, they should make everyone happy». F. Gateward in Seoul Searching: Culture and Identity in Contemporary Corean Cinema., State University of New York Press, 2007, p.17.
2 Nella cultura sudcoreana, spesso il nome dello stato da «Sud Corea» viene abbreviato in «Corea». Anche in questo elaborato potrebbe essere presente l’abbreviazione di Corea per intendere esclusivamente lo stato della Corea del Sud.
3 Tecnica cinematografica che consiste di utilizzare una sola inquadratura per narrare una o più sequenza, eliminando così l’uso del montaggio cinematografico.
4 M. Dalla Grassa, D. Tommasi, Il cinema dell’estremo oriente, Utet Università, 2010, p. 116.
5 «La grande influenza del cinema americano su quello coreano, sulla sua industria, il cui nome storico è Chungmuro, parte proprio dal processo produttivo e distributivo e passa inevitabilmente da formule narrative ed estetiche tipicamente occidentali. Il processo di globalizzazione, che ha favorito lo sviluppo dell’industria culturale, però lo ha anche appiattito creando un linguaggio che debba essere universale quindi affiancandosi al modello Hollywoodiano», D. Morello in Generi e Autori. Il cinema coreano contemporaneo. Edizioni Falsopiano, 2018, p. 27.