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di emma

Mentre mi siedo sulle sedie (scomode) del Palabiennale, all’incirca a metà della Mostra del Cinema di Venezia, il mio stato psicofisico non è dei migliori: oltre ad avere importanti carenze di sonno e di vitamina B, sto cercando (come al solito) di evitare il concorso per concentrarmi sulle sezioni collaterali e indipendenti, ma non ho ancora visto niente che mi abbia particolarmente folgorato. Le mie aspettative per La stanza accanto sono nella media: a interessarmi particolarmente è il fatto che si tratti del suo primo lungometraggio completamente in inglese. In più, dopo aver amato profondamente La voce umana (2019), sono soprattutto contenta di veder continuare la collaborazione tra il regista spagnolo e Tilda Swinton. Tilda Swinton, pur sempre uguale a sé stessa nel suo essere una presenza ultraterrena, riesce ad adattarsi talmente tanto allo stile di chi la dirige da farla sembrare ogni volta parte integrante fondamentale dell’universo narrativo degli autori con cui collabora, non importa quanto siano diversi tra di loro. Ne La stanza accanto, Swinton interpreta Martha, una ex reporter di guerra ora costretta a letto da un tumore al terzo stadio, che si trova a riallacciare il suo rapporto di amicizia con Ingrid, scrittrice di autofiction interpretata da Julianne Moore.

Julianne Moore e Tilda Swinton in “The Room Next Door” (Credits: Biennale)

Dopo all’incirca quindici minuti, la proiezione si interrompe per problemi tecnici. Io e il mio vicino di posto ci guardiamo e nei nostri occhi non c’è ombra di dubbio: il camp di Almodóvar mal si traduce nella lingua e nell’universo statunitense. Se infatti il distacco linguistico non era così rilevante nei due corti precedenti, complici il cast ridotto e le ambientazioni più o meno indefinite (La voce umana è completamente ambientato all’interno di un appartamento, Strange Way of Life in una sorta di far west), qui risulta più difficile ignorarlo. A farci storcere il naso sono in particolare i flashback iniziali, durante una delle prime conversazioni tra le nostre due protagoniste: a livello di scrittura, interpretazione e fotografia ci troviamo al limite della soap opera. Se però questa tendenza campy è sempre stata presente nel cinema di Almodóvar (e per altro da me sempre amata), il risultato da B-Movie non sembra essere particolarmente intenzionale come negli altri casi.

Pedro Almodóvar, Julianne Moore e Tilda Swinton sul set di “The Room Next Door” (Credits: Biennale)

Nonostante ciò, la proiezione – e con essa la conversazione tra Ingrid e Martha – riprende. La costruzione del rapporto tra le due – e il suo successivo svelamento al pubblico – diventa sempre più dipendente dalle parole e meno dalle immagini. Difatti, trattandosi di due personaggi che in fondo di mestiere fanno le storyteller, i momenti più forti sono quando il pubblico si riduce quasi a mero ascoltatore, nonostante la bellezza degli spazi in cui queste conversazioni avvengono. Mentre ascolto Ingrid e Martha parlare e rievocare i “bei tempi andati”, cerco di ricordarmi l’ultima volta in cui ho passato così tanto tempo con due protagoniste di quest’età.

Il rinascere della loro amicizia porta Ingrid a fare parte del cerchio di amicizie strette di Martha, a cui la seconda sottopone una richiesta: alla notizia che l’ennesima terapia non ha funzionato e che le metastasi sono ormai ovunque, Martha decide pacificamente di abbandonare la propria vita. L’unica cosa che desidera per la propria morte è avere una persona vicina, non al proprio capezzale, ma, appunto, “nella stanza accanto”. Per Ingrid, la quale ha tra l’altro appena finito di scrivere un libro per superare la propria paura della morte (fallendo miseramente), la proposta è disarmante: tuttavia, dato l’affetto provato nei confronti di Martha e il senso di colpa causato dal rifiuto di tutte le altre amiche, accetta.

The Room Next Door
Julianne Moore e Tilda Swinton in “The Room Next Door” (Credits: Biennale)

Dal momento in cui Ingrid prende questa decisione, La stanza accanto trasforma in atto tutto il suo potenziale. Il riferimento autobiografico è implicito: come in Dolor y Gloria (2019), anche qui vediamo dei personaggi appartenenti al mondo “dell’arte” che si trovano ad affrontare il crepuscolo della propria vita. Mi colpisce come la conversazione diventi la caratteristica centrale dell’invecchiare per Almodóvar, forse proprio perché il corpo non riesce più a vivere in prima persona, ma soltanto mediandosi tramite la parola o altre opere d’arte. I riferimenti intertestuali abbondano nel film, dal quadro di Hopper appeso nella casa del bosco dove la vita di Martha terminerà, al racconto di James Joyce The Dead, presente sia nella sua forma letteraria che nella sua trasposizione cinematografica. A turbare Martha è infatti non solo la perdita di memoria che le impedisce l’autonarrazione, ma anche quella di concentrazione, che le impedisce di godere delle narrazioni prodotte da altri.

Pedro Almodóvar, Julianne Moore e Tilda Swinton sul set di “The Room Next Door” (Credits: Biennale)

Alla coppia Swinton-Moore si aggiunge successivamente anche John Turturro, che interpreta Damien, un amante passato di entrambe le protagoniste. Damien è tutt’altro che un artista: è un professore universitario la cui ricerca si focalizza sul cambiamento climatico e il prossimo collasso ambientale. La sua comparsa sullo schermo rappresenta una sorta di intrusione del mondo reale, che apre delle fratture nel piccolo rifugio ideale che Martha e Ingrid hanno trovato nella casa nel bosco. Nonostante nemmeno Damien disdegni il raccontare e raccontarsi storie, per lui esse non reggono il confronto con i fatti: il suo punto di vista rimane scientifico e cinico, e sembra confrontarsi più con la morte del pianeta che con la propria. Tuttavia, il personaggio di John Turturro si propone come un interlocutore necessario per Ingrid, le cui battute la richiamano lei e il pubblico alla realtà – certe volte in maniera anche forse eccessivamente diretta, come il riferimento alla pandemia di Covid-19.

The Room Next Door
Pedro Almodóvar, Julianne Moore e Tilda Swinton sul set di “The Room Next Door” (Credits: Biennale)

Almodóvar ha descritto La stanza accanto come un film essenzialmente incentrato sull’atto di accompagnare: e, nonostante la storia sia prevalentemente costituita da conversazioni, il contributo più grande di Ingrid viene portato stando in silenzio. Il suo essere presente, il suo respirare nella stanza accanto, è un atto di una semplicità radicale – che tuttavia è stato rifiutato da tutte le altre amiche di Martha. E’ proprio la semplicità e la sincerità di questa presenza a rendere il rapporto di amicizia tra le due molto più profondo di tante sue variabili di recente trasposte sullo schermo. Inoltre, la performance di Julianne Moore in questo contesto rimarca non solo le sue grandi qualità attoriali, ma anche quanto esse risplendano quando si trovi in tandem con un’altra attrice talentuosa (come, di recente, in May December di Todd Haynes): in un’era in cui vediamo ancora il “Best Supporting Actor” come un premio subalterno, mi sembra giusto spezzare una lancia a favore di supportare, di accompagnare, e le grandi capacità di cui questo ruolo necessita. Complice lo stato di fervore e eccitazione di quasi tutto il Lido per The Brutalist di Brady Corbet, non avevo considerato minimamente La stanza accanto come un papabile Leone d’Oro. Ora, tornando indietro, mi sembra l’unica scelta possibile: in un’edizione della Mostra del Cinema di Venezia in cui tutti i film sembrano essere pervasi da oscuri presagi e da un senso apocalittico che incombe, quello di Almodóvar è l’unico a affrontare di petto ed esplicitamente la fine, a cercare una risoluzione pacifica tramite il confronto diretto.

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