di virginia
Approfondimento sui cortometraggi che ci hanno più colpito all’interno della selezione dell’ottava edizione del Laterale Film Festival, rassegna non competitiva di cinema sperimentale.
«è incidente» di alessandra breviario
Con un sottofondo sonoro, recitato, che ricorda le sperimentali composizioni elettroniche di Laurie Anderson e un utilizzo di animazioni realizzate con una tecnologia di epoca pre-digitale, È incidente di Alessandra Breviario mescola passato, presente e futuro attraverso il mezzo cinematografico. La simbologia regna sovrana: un uovo, tradizionalmente simbolo di nuova vita – da Piero della Francesca ai pittori preraffaelliti – viene qui trafitto. Due anelli, simbolo di unione, sono lasciati immobili, inerti. Simboli trasmettitori di messaggi oppure microrganismi in movimento rendono il dinamismo di un procedimento in trasformazione, vitale. Attraverso lampi, visioni fulminee, scorre sullo schermo un processo di rinascita, si aprono gli occhi per la prima volta, il blu del cielo si confonde con l’immenso blu del mare. La fluidità dell’acqua, dove tutto scorre, imprime un senso materiale alla pellicola e guarda al passato della storia dello strumento cinematografico – dato che l’elemento liquido si inscrive in una tradizione che parte da Jean Epstein, con il suo Finisterrae e passa attraverso L’atalante di Vigo. Dall’acqua tutto ha vita e nell’acqua tutto finisce, fino a confondersi interamente con il cielo, in un costante scambio tra sopra e sotto, tra aldiqua e aldilà. È incidente, è incidentale. Il nostro arrivo su questo mondo, la nostra permanenza.

«anima» di joana patrão
In Anima di Joana Patrão la matericità degli elementi prende progressivamente forma man mano che il cortometraggio scorre. Da situazioni inidentificabili, definite solo dallo scorrere della pellicola, da suoni e ombre indistinti, gli elementi materiali passano da una situazione di totale fusione con la materia filmica a una progressiva secessione dalla pellicola su cui sono stati inevitabilmente catturati. Il cinema diventa strumento per mediare il rapporto tra la natura, la macchina e l’umano e si fa progressivamente sempre più materico, con i contorni della pellicola cinematografica ben visibili sullo schermo. Un’ombra umana evanescente, forse solo immaginata, a malapena intravista, determina il passaggio da uno stato all’altro: è la mediazione dell’occhio della camera, attraverso cui rami, foglie, piante marine diventano distinguibili. Gli elementi, attraverso questo filtro, sono per forza di cose alterati rispetto a come lo spettatore è abituato a vederle (o a immaginarle, a pensarle) a occhio nudo.

«sunspots, burnt into my heart» di craig scheihing
Con il termine «schermo», fino a non molti secoli fa, si faceva riferimento a un particolare strumento domestico, che si trovava situato in corrispondenza di un camino, di un focolare, e serviva a proteggere da eventuali scintille o dalla propagazione di fiamme dal fuoco principale. L’uso della parola in questa accezione è rimasta nell’ambito della scienza, dove si parla di schermo come di un «dispositivo, di varia forma e natura, atto a impedire il propagarsi, in una certa regione dello spazio, di azioni elettriche o magnetiche, di radiazioni elettromagnetiche, in partic. luminose, o di radiazioni corpuscolari». È curioso che oggi, quando menzioniamo questa parola, spesso è in riferimento al cinema, dove assume quasi un significato opposto, dato che lo schermo cinematografico è il supporto che consente il propagarsi della proiezione, il propagarsi dell’immagine. Con sunspots, burnt into my heart, Craig Scheihing recupera entrambe queste accezioni di schermo, traslandole su un piano ulteriore, quello della sfera affettiva e sentimentale. Lo schermo diventa uno strumento utile per proteggersi dai sentimenti, ma per quanto efficace possa essere questo tentativo di protezione, comunque esiste sempre uno spiraglio che consente al sole/amore di entrare e di bruciare direttamente. L’anello non tiene, la maglia è rotta, il sole brucia direttamente al cuore dell’autore e non è più possibile nascondersi.

«reharsal for a dream» di ian capillé
«Cosa vedi, quando chiudi gli occhi?», chiede allo spettatore la voce narrante di Reharsal for a dream (Ensaio para sonho). Ian Capillé propone un mondo al contrario, ribaltato, dove il buio è luogo vivissimo in quanto promotore e propulsore di immaginazione. Il titolo del cortometraggio riprende e rimanda a quello di una serie di opere di José Saramago, una fra tutte Ensaio sobre a cegueira (alla lettera «saggio sulla cecità», tradotto in italiano con Cecità). All’interno del cortometraggio, così come nella storia dello scrittore portoghese, è molto presente la dimensione visiva ed è proprio sull’opposizione luce/buio che ruota questa lettera aperta allo spettatore narrata in voice-over. Mentre i protagonisti del romanzo di Saramago erano pervasi da una cecità bianca, qui lo spettatore è immerso nel buio più profondo, dato non solo dalla sala cinematografica – con cui il cortometraggio interagisce attivamente, in qualche modo rompendo la distanza tra luogo fisico e proiezione – ma anche da uno schermo completamente nero. Come in un sogno, sul “nero” degli occhi chiusi scorrono immagini vivide e colorate, ma al tempo stesso alterate. La trasformazione, l’alterazione dei colori delle immagini tradisce in qualche modo la veridicità di ciò che vediamo, facendoci dubitare della stessa realtà in cui siamo immersi.
