di christian
«Pensa se torniamo qui tra vent’anni e ci incontriamo in un negozio con i nostri figli», fantasticano Emma e Anaïs, 18 anni, inseparabili amiche d’infanzia. Si stanno godendo gli ultimi giorni d’estate in riva al lago, tra un tuffo e l’altro, prima di partire e prendere ognuna la propria strada. Immaginano un giorno lontano in cui torneranno nella piccola cittadina francese in cui sono cresciute e dalla quale tutti i giovani sono costretti ad allontanarsi per proseguire gli studi. Iniziato con un carosello di fotografie d’infanzia, il nostro viaggio nell’adolescenza di due ragazze come tante si avvicina al capolinea: per loro sta iniziando la vita adulta, ancora piena di promesse, ambizioni e speranze. In mezzo scorre tutto il loro vissuto, ciò che le ha formate e le ha cambiate.
Il documentario di Sébastien Lifshitz, presentato alla Semaine de la Critique del Festival di Locarno, segue la loro vita per cinque anni, dai 13 ai 18, e ne immortala lo sviluppo fisico e caratteriale, l’evoluzione del pensiero e l’affermazione dell’identità con onestà emotiva e intellettuale. Saggiamente, Lifshitz abbandona i sentimentalismi in cui è facile incappare quando si affrontano racconti di questo tipo. Come i personaggi di un buddy movie, anche le due protagoniste del film sono completamente diverse l’una dall’altra, fisicamente, per personalità, per estrazione sociale, per rapporto con i genitori e per ambizione.
Emma è snella, silenziosa, discreta e solitaria. Viene da una famiglia borghese con una bella casa in mezzo alla natura, sogna di trasferirsi a Parigi per studiare recitazione ma è costantemente messa sotto pressione da una madre asfissiante che la critica per qualsiasi cosa. Dall’esperienza che ne ha avuto finora, al sesso preferisce le coccole («Non mi piace essere toccata» dice in una sequenza del film, aprendo riflessioni anche sui diversi modi di vivere la sessualità). Anaïs è formosa, estroversa, vitale e ama prendersi cura degli altri. La sua famiglia è in condizioni economiche precarie, la madre è malata. Cerca di conciliare il suo bisogno di indipendenza con il desiderio di trovare un lavoro come assistente sociale per bambini e anziani, e aiutare economicamente la sua famiglia. Il suo rapporto con la sessualità è più sereno e, in un certo senso, più “classico”.
Che sia con uno sguardo romantico o più disilluso, la storia del cinema è piena di film che parlano di crescita, e lo stesso Lifshitz aveva già affrontato il tema nella sua filmografia. Nonostante Adolescentes sia una storia al femminile, la connessione più immediata nasce con Boyhood (2013) di Richard Linklater, con cui condivide la promessa e l’ambizione di raccontare una storia di formazione con una lavorazione pluriennale. Come nel film di Linklater, la crescita delle protagoniste si intreccia con la storia recente del Paese, i cambiamenti politici, sociali, tecnologici e culturali: se nella pellicola del regista texano le fasi della vita del protagonista sono contestualizzate all’uscita di un nuovo capitolo di Harry Potter, all’avvento di Facebook o alla candidatura di Obama, nell’opera di Lifshitz a fare da sfondo sono gli attentati terroristici alla sede di Charlie Hebdo, la strage al Bataclan e la sfida tra Macron e Le Pen alle presidenziali.
In Adolescentes, questo contesto è raccontato tramite l’utilizzo di materiale d’archivio ma anche dalle conversazioni delle ragazze con coetanei e adulti. In primo piano troviamo tutte le esperienze che costellano questo delicato ma cruciale momento di passaggio all’età adulta: l’educazione, il rapporto con i genitori, i primi amori, la sessualità, i sogni, le delusioni e i dolori personali. La maggior parte di questo vissuto, tuttavia, avviene fuori campo: quel che si vede non sono gli accadimenti principali, anche tragici, delle loro vite, bensì gli attimi precedenti e quelli successivi, gli effetti e l’impatto sulla loro quotidianità. Questo è probabilmente dovuto anche a ragioni pratiche di realizzazione (il regista incontrava Emma e Anaïs in sessioni di 2-3 giorni di riprese), ma la forza del racconto sta proprio nel modo in cui il fuori campo riverbera nei momenti immortalati dalla macchina da presa. Non è necessario vedere le lacrime di Anaïs alla scoperta della malattia della madre o l’incendio che distrugge la casa della sua famiglia. Adottando il linguaggio del cinema del reale, Lifshitz sceglie invece gli attimi più quotidiani, ordinari (verrebbe quasi da dire i più banali) dell’esistenza di un adolescente: si tratta di momenti che forse giacciono negli angoli più remoti della nostra memoria, ma talmente universali che, quando rievocati, si caricano di grande intensità emotiva. L’autore sa bene come stimolare situazioni e conversazioni significative che, in fondo, sono già presenti: hanno solo bisogno di essere avviate, per poi scorrere con tutta la loro forza ed essere ritratte con una messa in scena precisa e rigorosa.
A 18 anni Emma e Anaïs si immaginano il futuro tra 20 anni e scoprono di averne paura. Come biasimarle? Chi più, chi meno, questo timore ha accomunato e continua ad accomunare tutti noi, a prescindere dall’età e dal contesto, perché diventare grandi e mettersi a confronto con il mondo è un’esperienza universale. I racconti di crescita parlano alla persona anziana che rivolge uno sguardo nostalgico al suo vissuto, a quella adulta che teme di non aver goduto a pieno di quegli anni, ma soprattutto al giovane alla ricerca di chiavi di lettura di sé stesso e del mondo, per prepararsi al momento di passaggio. Il bello è che non saremo mai abbastanza pronti per il grande tuffo.