di virginia
Becoming Karl Lagerfeld, serie tv creata da Isaure Pisani-Ferry, Jennifer Have, e Raphaëlle Bacqué, con protagonista Daniel Brühl nei panni dello stilista tedesco naturalizzato francese, approda su Disney+. I sei episodi che compongono la serie, il cui titolo più preciso dovrebbe essere Becoming Karl Lagerfeld – Nonostante Yves Saint Laurent, si incentrano su un periodo che va dall’inizio alla fine degli anni ’70, quando Lagerfeld è impegnato come designer per Chloé e tenta disperatamente di mettersi in proprio e costruire il proprio marchio, il cui principale ostacolo sembra essere proprio Saint Laurent (qui interpretato da Arnaud Valois), sia per motivi personali e affettivi, sia per motivi economici.
Tolti alcuni documentari, tra cui, forse il più noto Lagerfeld Confidential (2007), si tratta di uno dei primi prodotti audiovisivi incentrati sulla vita dello stilista. La miniserie seleziona accuratamente un preciso momento della vita di Lagerfeld e se, da una parte, non racconta il suo massimo momento di gloria come direttore creativo di Chanel, dall’altra si risparmia non poche beghe su tutte le vicende controverse di cui lo stilista si è reso protagonista nel corso degli anni (è di pochi mesi fa l’articolo di Tayo Bero uscito sul Guardian, dove vengono ripercorse alcune delle principali uscite infelici di Lagerfeld). Se per quanto riguarda il designer in questione non ci sono molti punti di vista nel mondo del cinema e della televisione, la stessa cosa non si può dire per la figura di Yves Saint Laurent, dato che in un solo anno, nel lontano nel 2014, a distanza di pochissimi mesi, due registi francesi hanno firmato ognuno un biopic diverso sullo stilista algerino di nascita. Mentre Jalil Lespert aveva scelto Pierre Niney nel ruolo di Saint Laurent, Bertrand Bonello fece indossare a Gaspard Ulliel i panni dello stilista, con risultati così distanti e opposti da fare il giro e quasi arrivare a toccarsi nella loro somiglianza. Il Saint Laurent di Niney era un giovane e inesperto ragazzo capitato a Parigi; l’Yves di Ulliel – oltre a mostrare visibilmente un’età più matura rispetto al collega – era invece perfettamente integrato nella cultura e nella società della capitale: vestiva in pelle, frequentava la scena disco e non aveva paura di fare abuso di droghe insieme all’amante Jacques de Bascher, interpretato da uno spietato e freddissimo Louis Garrel ma figura pressoché assente (salvo per qualche comparsata in quanto, principalmente, amante di Karl Lagerfeld) nella versione di Lespert.
Una parentesi sulle varie versioni di Saint Laurent messe in scena negli ultimi anni serve per un confronto che questa figura ricopre nella vita di Lagerfeld. Infatti, se in entrambi i biopic non si ha pressoché traccia della presenza dello stilista tedesco, lo stesso non vale per il contrario. Il Lagerfeld di Brühl – interpretato splendidamente, come se si avesse ancora bisogno della conferma del talento dell’attore – vive in funzione di Saint Laurent, la sua intera carriera sembra dedita a proseguire in una fantomatica gara con l’ex collega e amico che, però, non sembra vincere mai. Ogni gesto, lavorativo e personale, ha una precisa ripercussione sui rapporti con Saint Laurent e di questo la storia e, soprattutto, la scenografia della miniserie (curata da Jean Rabasse) sembra esserne consapevole.
Casa di Yves, mostrata in occasione di una festa lanciata in onore dell’amico Andy Warhol – il cui ritratto occupa una posizione centrale nel salotto dello stilista, come già era successo nel Saint Laurent di Bonello – ha una stanza sola, si configura come un unico ambiente aperto, manifesto, dove gli astanti possono muoversi liberamente, guardando chi arriva ed essendo visti a loro volta. Casa di Karl, invece, dove vive con la madre, appare come un labirinto dove potersi nascondere, dalle mille ambientazioni e colori diversi e riflette benissimo la sua personalità; Lagerfeld è un designer che lavora per diverse case di moda, non ne ha una propria e deve lavorare “su commissione”, ogni volta adattando il proprio stile e gusto in base alle esigenze del marchio che lo ha assunto. Le stanze della sua dimora sono tutte diverse e risulta molto importante la dimensione del closet, della cabina armadio che possiede: una stanza-nascondiglio che rispecchia precisamente la sua nascosta omosessualità – non si preoccupa di nasconderla attivamente, ma non ne parla mai ed è freddo con l’oggetto del suo interesse amoroso, Jacques (interpretato da Theodore Pellerin). Non è un caso che la maggior parte delle sequenze tra i due personaggi prendano luogo proprio all’interno di questo closet, al sicuro e al riparo da occhi indiscreti.
Il ritratto di Karl Lagerfeld che la miniserie dipinge è abbastanza insolito, se si considera che si tratta comunque di uno dei designer contemporanei più influenti. Non possiede tutte le solite caratteristiche del genio, dell’artista, dello spirito incompreso che – solitamente – sono attribuite a un visionario che si muove nel mondo della moda; Lagerfeld è più un lavoratore, un’ape operaia a servizio di diversi marchi e brand, va di polline in polline cercando ispirazione per la sua casa di moda ma il momento non sembra arrivare mai. Definito «mercenario del prêt-a-porter» dal compagno e titolare delle azioni di Saint Laurent, Pierre Bergé (interpretato da Alex Lutz), Lagerfeld tenta disperatamente di fare un “salto di qualità” e creare una propria collezione haute couture, senza mai riuscirci. Forse per colpa di un interiorizzato classismo e disprezzo per la piccola e media borghesia, forse per colpa di un innato desiderio di scalare la vetta della società, Lagerfeld non farà mai pace con il suo ready to wear, al contrario di Gaby Aghion (interpretata da Agnès Jaoui) direttrice di Chloé, che si rifiuta categoricamente di «disegnare vestiti solo per donne ricche», preferendo realizzare abiti per donne come lei.
Becoming Karl Lagerfeld è molto lontana dall’essere una celebrazione e un’agiografia dello stilista, anzi, più che mostrarci quanto sia stato difficile essere e diventare Karl Lagerfeld, mette in mostra quanto difficile sia stato, piuttosto, stargli intorno e lavorarci insieme. Il mondo della moda subisce una sorta di “cartolinizzazione” degna delle migliori fiabe Disney – a questo punto si potrebbe pensare che non sia un caso il fatto che in Italia sia stata distribuita proprio dall’omonima piattaforma streaming. Se nel Saint Laurent di Bonello addirittura il cane di Yves, Moujik, incontrava la propria morte per overdose durante una delle fantomatiche orgie che Jacques de Bascher organizzava nel proprio appartamento, qui l’amante di Lagerfeld e Saint Laurent riceve in modo molto “pulito” e nitido il proprio spacciatore in casa, che con una ventiquattrore offre le migliori droghe sul mercato al cliente. Anche Lespert, nella sua interpretazione di Saint Laurent, non indugiava troppo sull’aspetto dell’abuso di droghe, ma almeno non cadeva in stereotipi demodé quali i giovani punk responsabili della dipendenza di Jacques de Bascher. Daniel Brühl salva tutto il salvabile dalla miniserie, recita in francese e in tedesco con un preciso accento di Amburgo, quello che, stando alle parole dell’attore, «richiama la borghesia tedesca più alta e ricca». Che Brühl fosse uno degli attori più talentuosi della sua generazione, questo si sapeva da molto tempo.