di emma
In un articolo per Vulture, la critica Andrea Long Chu analizza il ruolo del disgusto all’interno dell’opera di Ottessa Moshfegh. L’autrice si è infatti distinta fin dagli esordi per i suoi personaggi femminili detestabili, disgustosi e complessi: «It is wrong to say that Moshfegh writes unlikable characters for the simple reason that many people do like them quite a bit; her commercial success testifies to a widespread hunger for having one’s appetite ruined. This is the premise of Moshfegh’s fiction: Disgust does not preclude delight—and, in fact, it often enhances it». La popolarità di Moshfegh ha infatti contribuito ad attestare il suo titolo di “High Priestess of Filth” – sempre nelle parole di Chu – fino al punto di diventare il nome di riferimento quando si parla di questo tipo di personaggi (nonostante esistano altrǝ autorǝ di gran lunga più capaci – Eliza Clark, Rachel Yoder, Emma Cline, Melissa Broder, solo per citarne alcune). Non a caso, moltissime case di produzione cinematografica si sono spesso litigate i diritti dei suoi romanzi: basti pensare al fatto che l’adattamento del suo romanzo più popolare, My Year of Rest and Relaxation, (uscito nel 2018 ma che ha avuto un vero e proprio successo nel 2020) dovrebbe essere diretto da niente di meno che Yorgos Lanthimos.

Nel 2015, dopo la pubblicazione di una novella sperimentale dal titolo McGlue (recentemente tradotta in italiano per Feltrinelli e anche questa destinata prossimamente a diventare un film diretto da Andrew Haigh) e di alcuni racconti, Moshfegh decide di dedicarsi alla scrittura del suo primo romanzo con l’esplicita intenzione di cimentarsi nella forma della narrativa commerciale, a scopo di attirare l’attenzione di un grande editore e così potersi permettere una carriera dedicata soltanto alla scrittura. Spiega, infatti, Paul Laity nel suo articolo per il Guardian: «So Moshfegh “went out and bought a book called The 90-Day Novel, by Alan Watt. It’s ridiculous, claiming that anybody can write a great book, and quickly too. And I thought if I were to do this, what would happen, would my head explode? So I followed it for 60 days – it was so boring. But it ended up as an Oulipian thing, struggling with a limitation, and it was actually interesting to conform to the rules. So … it started out as a fuck-you joke, also I’m broke, also I want to be famous. It was that kind of a gesture”».

Il risultato di questo esperimento è, appunto, Eileen: un romanzo noir ambientato nel 1964 e narrato in retrospettiva da un’Eileen anziana, che descrive gli avvenimenti che l’hanno portata a fuggire dalla sua città natale, X-Ville, da qualche parte nel New England. Eileen vive con il padre alcolizzato (di cui si prende cura dalla morte della madre), lavora in un penitenziario giovanile e conduce un’esistenza estremamente squallida e ripetitiva, abusando di alcolici e lassativi. L’incontro con una misteriosa donna appena arrivata in città, Rebecca, la porterà a rendersi complice di un crimine e affrontare la realtà al di fuori dei suoi pensieri ossessivi.

Essendo il libro scritto in prima persona, il lettore ha un accesso diretto all’odio verso di sé e alle fantasie più sconcertanti di Eileen (principalmente a sfondo violento o sessuale), insieme alla complicata relazione con il suo corpo, caratterizzata da un’ambivalenza tra ossessione e forte repulsione per esso e completata dalla descrizione di qualunque tipo di processo corporeo. In un’intervista per il New Yorker del 2018, Moshfegh si definisce ancora sconcertata dall’intensità della reazione del pubblico alla fisicità della sua protagonista: «They wanted me to somehow explain to them how I had the audacity to write a disgusting female character. It shocked me how much people wanted to talk about that», dal momento che la sua intenzione iniziale era di caratterizzare Eileen come una persona dotata di una percezione falsata della realtà, unita a un forte disprezzo verso di sé, non come completamente repellente.

Forse questa concezione iniziale del personaggio si mostra più evidente nell’adattamento cinematografico: tuttavia, il rimanere fedele all’intenzione autoriale di Moshfegh sfortunatamente priva Eileen di quel fascino morboso che la caratterizzava nel libro. Diretto dal regista William Oldroyd – conosciuto principalmente per Lady Macbeth e quindi già dimostratosi in grado di raccontare storie di donne complicate e ambivalenti – e scritto dalla stessa Moshfegh in collaborazione con il marito Luke Goebel, Eileen è il primo degli adattamenti della sua opera a vedere effettivamente la luce. La differenza fondamentale tra il libro e il film è l’assenza dell’inner monologue e quindi dello sguardo di Eileen adulta, perdendo anche i pensieri ossessivi tanto caratteristici del personaggio, nascosti sotto un’espressione apparentemente apatica, da lei stessa definita «death mask», che solo raramente lascia trasparire gli aspetti più turbolenti della sua personalità. La Eileen cinematografica sembra invece più una ragazzina spaesata – impressione probabilmente alimentata anche dalla scelta di casting di Thomasin McKenzie, che abbiamo visto di recente interpretare adolescenti inesperte in Old (2021) o Last Night in Soho (2021).
In entrambe le versioni, Eileen cova un forte risentimento nei confronti di suo padre, che però nel film non affiora quasi mai se non in qualche battuta («Everybody wants to kill their father?» «No they don’t, who told you that?»). Le sue fantasie irrequiete ogni tanto vengono esplicitate allo spettatore, ma non raggiungono i picchi di oscenità del libro – in cui, ad esempio, Eileen ammette di aver trattato freddamente una ragazza vittima di stupro a causa dell’invidia: «No one ever tried to rape me». Thomasin/Eileen succhia i cioccolatini invece che mandarli giù e si addormenta nel proprio vomito: queste rappresentazioni del disgusto si dimostrano fin troppo superficiali per suscitare un vero e proprio distacco da parte dello spettatore. A rendere il libro interessante è proprio questo gioco altalenante di empatia e disgusto, accompagnato dalla prosa accattivante di Moshfegh: «Eileen so disgusts herself that she fantasizes about being impaled by a falling icicle: “Perhaps it would have soared down my throat, scraping the vacuous center of my body—I liked to picture these things—and followed through to my guts, finally parting my nether regions like a glass dagger.” Of course, readers like to picture these things too. This is the pleasure of reading Moshfegh at her best: letting her plunge something sharp down your throat before you have a chance to gag».

Perfettamente riuscito è invece il personaggio di Rebecca, anche grazie alla grande scelta di casting, ovvero Anne Hathaway: Rebecca è un personaggio completamente estraneo alla vita di X-Ville, dai chiari rimandi hitchcockiani, il cui fascino colpisce immediatamente tutti ma, soprattutto, Eileen. I sottotoni queer e lesbici presenti nel romanzo vengono esplicitati nel lungometraggio: nelle recensioni su Letterboxd viene infatti spesso definito come una variante di Carol (2015). Tuttavia, a differenza del film di Haynes, Eileen non è un melodramma, ma si colloca più nella direzione del noir. Ma, dopotutto, è un buon noir? A mantenere l’attenzione dello spettatore nel libro è più l’interiorità del personaggio che gli avvenimenti della trama, al contrario delle convenzioni del genere: tuttavia, nel film, Eileen non smette mai di sembrarci niente altro che una bambina che gioca coi vestiti dei grandi, una giovane persa in un mondo ostile. Nonostante anche questa sia una caratteristica del personaggio originale, a rendere il romanzo più forte e coinvolgente è il complicato rapporto empatico che si instaura tra Eileen e il lettore: noi leggiamo la sua storia, ci affezioniamo a lei ma al tempo stesso ci fa ribrezzo – anzi, certe volte il nostro attaccamento è forte proprio perché ci fa ribrezzo. Il film di Oldroyd non mostra mai quanto Eileen possa essere patetica e terribile: si propone più di mostrare un paradigma di innocenza già predestinato a scomparire con lo “shocking reveal” del terzo atto (che non risulta né inaspettato né atteso), lasciando noi spettatori completamente indifferenti.