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di pavel

«La signora ci uccide con la sua gentilezza», affermava una delle due sorelle de Le Serve di Genet, pièce che è stata nell’ultimo ventennio il cavallo di battaglia intellettuale dei drammaturghi borghesi dagli slanci filomarxisti. Qui dolcezza è sinonimo di affettazione, che è un convenevole decisamente borghese. Genet, che suo malgrado – o no, fate voi – è apprezzato dal mainstream per la sua pornografia, ci ha visto lungo quando a metà del secolo scorso debuttava con una sua versione tutta personale di Waiting for Godot dove, se nell’opera di Beckett i due protagonisti erano due poveri stronzi vittime del tempo, qui le due servono da povere stronze vittime della mano borghese che le nutre.

Emma Stone e Jesse Plemons in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

A ben pensarci, se il lascito della rivoluzione industriale è la borghesia, il lascito della borghesia è il borghesismo. Forse nessun romanzo più di Anna Karenina è riuscito ad esprimere la fallibilità del concetto di felicità filtrato dalla stizza borghese, oggigiorno imperantissima. Più di Tolstoj, Dostoevskij è riuscito a ridere del proprio borghesismo, senza risparmiare slanci sentimentali che servono al nostro bisogno di auto-narrarci. Ma questo è un altro discorso. E tutti sanno piangere ora, ma nessuno ride più. Yorgos Lanthimos è invece ironico, anche se non pretende ironia dai suoi personaggi: è per questo che è proprio Anna Karenina il romanzo che Dafoe costringe Plemons a leggere nel primo dei tre segmenti che compongono Kinds of Kindness, uscito lo scorso 6 giugno nelle sale italiane. In questa prima parte dell’opera vediamo il talentuoso marito di Kirsten Dunst nel tentativo di riprendere in mano la propria vita, tradito dal suo capo che dopo anni di fedeltà gli ha dolcemente consegnato il TFR. La colpa di Plemons? Si è rifiutato di uccidere una persona pagata dallo stesso Defoe per farsi ammazzare. Wild, right?

Willem Dafoe, Jesse Plemmons e Hong Chau in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

Non le conto più le volte in cui mi è stato detto, anche con l’intenzione di ferirmi, che la mia carineria e gentilezza sono false, risultano false, che il mio modo di relazionarmi agli altri appare ipocrita, che tutto il mio atteggiamento elegante, il mio fare raffinato, è indice di un’aspirazione borghese un po’ stupida e mediocre. Perdonatemi se ho vissuto: ho letto molti romanzi europei, a differenza vostra. Il lascito culturale di Tolstoj, Dostoevskij, Flaubert, ci ha profondamente illuminato sulle ambizioni, paure, desideri e ipocrisie che sottendono all’identità borghese: un costume dal quale cerchiamo di scappare senza accorgerci che anche lo stesso disprezzo per ogni forma di commodity – termine in voga di questi tempi – è anch’esso una forma di borghesismo, e tra l’altro anche snob, aggiungerei.

È interessante che queste critiche, impilate come tutte le vecchie edizioni di grandi romanzi rilegati in tessuto che ho letto nel corso di un’esistenza lunga ventisei anni, vengano sempre da persone poco eleganti, poco raffinate: ricche o povere che siano, proiettano la loro gelosia verso la mia grazia ed eleganza, che non sono ipocrite, sono proiezioni di una nobiltà d’animo. Aggiungiamo poi che queste persone al massimo leggono la saggistica di Bauman, e l’addizione è semplice. Come il desiderio di molti di decostruire senza ricostruire, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad un desiderio sempre più imperante di essere stronzi verso gli altri: è il narcisismo delle piccole differenze di cui parla Lydia Tár, e quello che mi preoccupa è che gli stronzi oggigiorno non sono sadici: sono buonisti, il che è peggio. Ti vomitano una cattiveria facendola passare come “critica costruttiva”. E i cazzi vostri? No, perché i miei sono fazzoletti di seta ripiegati nel taschino delle mie giacche in tweed cucite su misura che tanto detestate.

Hong Chau in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

La vita si sa, è semplice: sono i nostri rispecchiamenti a complicarla. Fortunatamente, non mi lascio persuadere facilmente, contrariamente a molta gente che soffre in continuazione dei propri piccoli drammi (cfr. L’origine del dramma borghese). L’ultimo film di Lanthimos con ogni probabilità offenderà tutti quelli che della loro sincerità non riescono a renderne un giudizio obiettivo, e chi della propria obiettività invece non ne ricava nulla di buono. Ma ferirà soprattutto chi manca di tatto, e chi manca di tatto oggi manca anche di gusto: non sa distinguere la viscosa dal lino puro. Purtroppo, è così. Kinds of Kindness non piacerà nemmeno a coloro che hanno adorato il pastiche femminista post-punk che è Povere Creature. Con quello Lanthimos ha di certo compiaciuto un pubblico preciso; con questo, compiace solo se stesso. E fa bene perché – contrariamente ad una pericolosa concezione che ultimamente ha fortuna – il cinema non deve spiegare proprio niente a nessuno. Per quel tipo di alfabetizzazione, c’è il misto acrilico di Paola Cortellesi.

Mamoudou Athie in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

Il romanzo realista ha avuto fortuna fino alla fine degli anni Settanta. Le prime avvisaglie della crisi petrolifera prima e la progressiva aziendalizzazione di ciascun settore della vita associata poi hanno prodotto un’esplosione di retrospettive che hanno rispolverato, nei circoli culturali di rilievo, il frammentario novecentismo britannico. Adoro Virginia Woolf, ovvio. La finta cortesia anglo-piemontese, un po’ meno. Ricordo la prima volta che ci sono entrato in contatto. Fu quando, a diciotto anni, volai a New York coronando così il mio più grande sogno nutrito dai tempi in cui, tornato da scuola, guardavo Gossip Girl su Italia 1 e sognavo di bermi uno Starbucks sugli scalini del MET e avere dei denti in ceramica del colore dello zinco. Proprio nella Grande Mela scoprii (o scopersi, come direbbero gli einaudiani) che, quando gli statunitensi si rivolgevano con un “How you doin’?”, non si aspettavano una risposta: era, quello, un semplice gesto di cortesia. Un nonsense un po’ ipocrita, no?

Kinds of Kindness
Hong Chau e Jesse Plemons in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

Gli Stati Uniti sono figli dell’Inghilterra tutto sommato, le uniche due cose differenti sono gli spazi – più ampi – e la cultura – più povera. Gli statunitensi sono dei bambinoni borghesi: hanno degli occhi curiosi e una maniera tutta loro di intendere i rapporti umani. Ma sono anche molto scemi e assorbiti dal loro tracotante narcisismo. E se dagli anni Cinquanta in poi l’Europa si è nutrita dei loro immaginari, questa postura post-romantica ha per forza prodotto qualche modifica anche qui dove i denti sono storti e grigi e se ti vesti bene significa che sei sionista. Di sicuro in me l’ha fatto. Lanthimos si serve del processo di banalizzazione per raccontare i diversi tipi di stronzi che dilagano ora anche nel vecchio Continente, data la creolizzazione degli expats forti del loro potere economico rinvigorito dallo smart-working realm. Ambientando un’antica leggenda in un Nordamerica imprecisato nei primi anni Duemila, coincidenti con l’inizio del tardo capitalismo e l’innesto della woke culture che fa da prodromo all’ipocrita political correctness aziendalistica che condanna i genocidi che in realtà finanzia, il regista greco ci ricorda che il mondo è pieno di stronzi, e che in quest’epoca è sempre più difficile scovarli, perché ormai la cortesia come convenevole, decorato rituale sociale, è diventata un retaggio comune – ma anche un modo per deresponsabilizzare la nostra partecipazione alla deumanizzazione totale dei rapporti umani. 

È triste sapere che la critica pop, anche e soprattutto quella italiana, ha stroncato quest’opera. Nondimeno, è rassicurante sapere che l’Italia è anche uno di quei pochi paesi ad aver acquisito i diritti di distribuzione del film, ancor prima degli Stati Uniti, perché sostanzialmente l’ultimo di Lanthimos è un capolavoro raffinato, e le perle non donano a tutti. Forse qualcuno che non si è venduto l’onestà intellettuale in cambio di un salotto di Veneta Cucine e un paio di sabot di Gucci in questo paese è rimasto e ha ancora il potere di decidere su quale tipo di cultura proporre alla popolazione civile: trittico post-realista, mito bruegheliano che ridipinge concetti come la ricerca della felicità, il desiderio borghese, la solitudine e l’opportunismo all’alba dell’age of anxiety globale dei confusi anni Duemila, Kinds of Kindness ci racconta che se il trauma generazionale esiste, la post ideologia in cui nostri genitori ci hanno cresciuto ci ha reso delle grandi zappe, e per giunta presuntuose.

Kinds of Kindness
Mamoudou Athie in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

«Sweet dreams are made of this», Annie Lennox intonava nei primi anni Ottanta, gli albori del grande corporativismo in giacca e cravatta, il sostituto yuppie ottimista e nordamericano delle religioni secolarizzate e delle eredità morali delle filosofie continentali; «Some of them want to use you, some of them want to get used by you», e ancora «Everybody is looking for something», e non a caso Lanthimos inserisce questo pezzo nel suo film. Se gli USA, con le loro estetiche aggressive e il loro narcisismo individualista, hanno semplificato la complessità dell’intero periodo occidentale, in Kinds of Kindness la semplicità umana è l’ordinata principale, la mediocrità dell’esistenza il predicato verbale e l’imprevedibilità la m dash postmoderna che ci ricorda – o dovrebbe ricordarci – che questa società, se così terribilmente imprevedibile deve essere, che almeno sia partecipe di un pizzico d’onestà intellettuale in più.

Ho creduto a lungo a una grande bugia: che il successo a cui ho sempre ambito, se lo avessi chiesto con gentilezza e lo avessi perseguito con eleganza, lo avrei sicuramente raggiunto. Per ora, alla mia prospera età, con la mia grazia e affettazione non ci ho fatto molto, salvo racimolare critiche che dovrebbero ferirmi in un qualche modo che non ho ancora capito. Non dico poi che queste siano critiche sbagliate: la mia eccessiva compiacenza può risultare costruita, è vero, ma a voi cosa importa? Non ho ucciso nessuno, non sono buonista e non ordino stronzate su Amazon. Se pensate che la mia gentilezza serva a voi per essere stronzi con me, vi sbagliate di grosso: sono carino solo perché odio le facce da cazzo – dopotutto le anime semplici come me vivono di rispecchiamenti. Come posso essere felice se sono circondato da gente che prospera nella negatività? Il problema siete voi che godete a essere delle merde. Come dice Rachel Sennott in Bodies Bodies Bodies, “Who wronged you?”. Davvero, chi vi ha offesi? Il barista, il date di Tinder, la commessa di H&M, vostro padre?

Kinds of Kindness
Willem Dafoe e Margaret Qualley in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

Guardare Kinds of Kindness mi ha riportato alla mente un film stranissimo, stipato nella mia memoria in mezzo ad anni trascorsi a sognare la vita semplificata dalle serie tv della CW. Avrò avuto sei anni, aspettavo che i miei genitori si addormentassero per sgattaiolare nel salotto e accendere la tv dal tubo catodico. Mediaset alle due di notte non offriva granché, salvo batterie di pentole antiaderenti e attrezzi per scolpire gli addominali (altra riprogrammazione borghese di provenienza statunitense). C’era TVR Voxson sintonizzato sul canale 8 che trasmetteva in loop The Midas Touch, un film-tv indipendente del ’97 che riattualizzava Re Mida nella prospettiva di un biondino americano che desiderava avere i soldi necessari a garantire un trapianto di cuore alla nonnetta che purtroppo stava finendo i suoi giorni. Insignito (per una serie di eventi casuali) del magico dono, presto si rendeva conto che il potere di trasformare tutto quello che toccava in oro era una condanna nell’epoca in cui viveva: non poteva toccare nessuno e doveva scappare da due malintenzionati che avevano scoperto la gallina dalle uova d’oro; e io così giovane già capivo che la morte era purtroppo inevitabile e che il successo, per come lo desideravo, era disponibile sì, ma a un caro prezzo.

Kinds of Kindness
Margaret Qualley, Jesse Plemons e Willem Dafoe in “Kinds of Kindness” (Foto di Atsushi Nishijima, © 2024 Searchlight Pictures)

Oggi è il 2024, sono a Milano, dove tutti sono bellissimi e ricchissimi: e io sono carino sì, ma poverissimo. Credo, come tutti ormai, all’equazione soldi + bellezza = successo. Solo che non sono nessuno di questi poveri stronzi per fortuna, perché il successo mi fa paura, e fortunatamente non posso comprare nulla: faccio giusto un giro, do solo un’occhiata. Lanthimos con Kinds of Kindness mette fine all’epoca satura dell’imprenditorialità del sé, regalandoci una favola esemplare che ci ricorda che le imprese non sono mai esperite da singoli individui, che non esistiamo se non attraverso gli altri e che i dolci sogni mutuati dalla Silicon Valley, they come at a high price: se anche tu vuoi il tuo successo, che sia una bella casa, un fisico perfetto, una macchina prestante o quindici minuti in televisione, il prezzo da pagare è la tua onestà intellettuale, per l’eternità. Puoi anche rinunciare al successo, ma la fine è quella di Anna Karenina. Come finisce? Dimenticavo che nessuno legge più romanzi oggi. Andate al cinema allora, e preparatevi all’inizio di una nuova era.

 

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