di giulia
Oggi parliamo di cinema verità, anche se di una versione forse un po’ diversa da quella che Edgar Morin descriveva riferendosi al cinéma vérité di Dziga Vertov. «Si tratta di fare un cinema verità che superi l’opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva.[1]», incitava Morin stesso, sull’onda di quelle nuove correnti d’avanguardia che, negli anni Sessanta, iniziavano a mettere in risalto l’esigenza dei registi di descrivere la realtà con l’entrante ambizione di avere anche un impatto su essa. I principi su cui Christophe Honoré ha basato il suo ultimo film, Marcello Mio, non saranno interamente quelli della ricerca sociologica di cui Morin si faceva portavoce, ma è sicuramente chiaro il tentativo di rendere il più possibile labili i confini fra trama e realtà, facendo interrogare lo spettatore su quanto ci sia di vero in questa narrazione.

Tutto ciò ovviamente funziona meglio se chi guarda il film è – come me – inserito nelle dinamiche dello stardom del cinema italo-francese. Che Chiara Mastroianni sia la figlia di Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve forse non è un segreto per nessuno. Che Chiara Mastroianni fosse davvero sposata con Benjamin Biolay e avesse davvero avuto una relazione, in gioventù, con Melvil Poupaud, probabilmente è un’informazione meno diffusa. Senza finire nei pettegolezzi, quello che è importante sapere è che tutti, in questa ultima opera di Honoré, interpretano loro stessi. Poi, se le azioni portate avanti dai componenti del cast rispecchino realmente aspetti delle loro varie personalità, non ci è dato saperlo. Starà a noi decidere in cosa credere sia reale e convincerci, invece, di cosa lo sia un po’ meno.

Il film inizia con una Chiara Mastroianni, vestita con abito nero e indossando una parrucca bionda, che registra una scena all’interno di una fontana. Il riferimento a La Dolce Vita è qui, volutamente, fin troppo didascalico. Da subito si percepisce in Chiara un’insoddisfazione, un’irrequietezza, che sarà portata allo stremo nel momento in cui, durante il provino per un film, viene criticata dalla regista Nicol Garcia – sì, anche questa volta interpretata da sé stessa, avete ormai capito il gioco – che le chiederà di essere «meno Deneuve, più Mastroianni» nel suo recitare. Questa affermazione fa scattare qualcosa in Chiara, che da quel momento inizierà a vestirsi con completi da uomo, indosserà una parrucca a taglio molto corto, cappello, baffi finti, e dirà a tutti di chiamarsi “Marcello”. Nel modo di parlare, di camminare, di atteggiarsi, Chiara Mastroianni diventa dunque suo padre, quell’icona che è stata tanto sua quando nostra, del mondo. Il punto sta proprio qui, quale è il giusto stratagemma da usare per rendere omaggio a una persona che ha influenzato così tante vite, senza cadere nelle banali celebrazioni? Perché Marcello è mio, è tuo, è vostro, è di chiunque abbia amato il cinema in passato e di chiunque lo amerà in futuro. Honoré gioca sulla nostalgia, intelligentemente partendo da quella che le persone a lui state vicine provano ogni giorno sentendone la mancanza, cercando allo stesso tempo di evocare in chi l’ha conosciuto “solo” attraverso lo schermo del cinema, un sentimento affine.

Non nascondo che per l’intera durata del film ho aspettato il raggiungimento di un apice di quella follia che tanto viene caricata. Le numerose references cinematografiche che si possono trovare nel corso della pellicola funzionano più come gioco per uno spettatore attento, che vero arricchimento alla trama, la quale a volte risulta confusa (not in the good way). Ciò accade soprattutto nei vari momenti dove il film si cimenta in un tentativo di ricreare l’onirico felliniano, senza però ottenere neanche la metà dell’impatto che la fonte originale di ispirazione possiede. Anche la lunga scena ambientata negli studi Rai – pur riuscendo nel suo messaggio di farci capire che di Marcello Mastroianni, in fondo, ce ne sarà sempre e solo uno (e così anche, non meno importante, di Chiara Mastroianni) – rimane sospesa, incapace di sfociare in quell’astrazione finale alla 8½ che Marcello Mio continua a ricercare, senza successo. Tirando le fila del discorso, le tematiche di nepotismo e relazioni familiari, su cui molte critiche sono state concentrate, sono in realtà, a mio avviso, solo un’espediente narrativo per arrivare a quello che è il vero fulcro del film: ancora una volta il cinema stesso. Il cinema che parla di cinema, il cinema che è finzione ma realizzato da persone reali, il cinema (di cui Mastroianni ne diventa qui il simbolo) che è parte integrante delle nostre vite.

Caro Marcello, quando in Una giornata particolare di Ettore Scola, in quella scena che tanto mi piace, hai detto «Pensami quando puoi», io ti ho preso molto sul serio. Ti penso anche quando non posso. Ma a quanto pare non sono l’unica.
[1] G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, 3° vol., Dalle “nouvelles vagues” ai nostri giorni, t. 1, Milano 1988 p. 343