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di virginia

o sul perchè ad alcune figure letterarie non sia proprio andato giù questo film di pasolini

Salò o le 120 giornate di Sodoma, ultimo lungometraggio diretto dal regista, scrittore e poeta Pier Paolo Pasolini, esce nei cinema italiani il 10 gennaio 1976. Pasolini, deceduto nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, non vedrà mai la distribuzione di Salò nei cinema del proprio paese, ma aveva già intuito, durante le riprese, quanto il suo ultimo lavoro da regista avrebbe dovuto lottare contro la censura dello Stato italiano, per far sì che potesse uscire “liberamente” in sala. In risposta a una domanda posta da un giornalista sulle difficoltà di distribuzione relative alla censura, durante quella che, alla fine, si rivelò essere l’ultima conferenza stampa di Pasolini, il regista rispose: «Suppongo che ci saranno [difficoltà], speriamo di vincerle. Oggettivamente, ci saranno sicuramente delle lotte da fare»[1].

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

La pellicola era stata presentata in anteprima alla stampa durante il Festival di Parigi, tenutosi nel novembre del 1975; fu in occasione di questa proiezione che Roland Barthes, critico e semiologo francese, nonché punto di riferimento per gli intellettuali d’Europa e oltre, scrisse la famosa recensione[2] in cui prendeva posizione contro la pellicola. Barthes, nel suo articolo, evidenziava come, a suo parere, Pasolini avesse completamente frainteso la lezione di Sade[3], dal cui libro, Le 120 giornate di Sodoma, il film è tratto. La polemica portata avanti dallo studioso francese non fa che anticipare una serie di critiche che verranno mosse al film anche nel Paese in cui è stato realizzato; in seguito alla distribuzione, che comunque andò incontro a non pochi ostacoli di natura giuridica[4]Salò fu visto e commentato dai principali esponenti della cultura italiana, e come risultato, vennero elaborate diverse opinioni – dal totale disprezzo e rifiuto della pellicola, fino ad arrivare a vere e proprie arringhe in difesa del film[5]. Dopo la presentazione alla Croisette, una volta arrivata in Italia, la pellicola andò quindi incontro a una serie di revisioni e di tagli per poter aggirare la censura: dai tagli di montaggio operati, il risultato fu quello di ottenere tre versioni diverse di Salò, ciascuna caratterizzata da un differente minutaggio. 

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

La versione che venne approvata e, successivamente, distribuita nei cinema della Penisola constava di 117 minuti – una versione ridotta rispetto ai 145 previsti in quella originale girata da Pasolini. Intorno al film, in modo quasi spontaneo e pressoché immediato all’uscita, si sviluppò un fervido dibattito culturale: critici cinematografici, letterari, e, più in generale, esponenti della cultura dell’epoca accorsero in massa al cinema per poter visionare l’ultimo lavoro di un regista tanto amato quanto disprezzato dall’opinione pubblica. Se, da una parte, coloro che avevano conosciuto Pasolini più intimamente e già avevano apprezzato le sue precedenti opere cinematografiche prendevano spassionatamente le difese dell’autore, dall’altra ci fu una componente di intellettuali che non riuscì a ignorare il profondo turbamento interiore provocato dalla visione di Salò.

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Oltre alla già citata stroncatura operata da Barthes, in Italia anche lo scrittore Italo Calvino decise di criticare Salò facendo ricorso al criterio dell’adattamento cinematografico, mal riuscito secondo la sua opinione: «Per prima cosa devo dire che l’idea di ambientare il romanzo di Sade ai tempi e nei luoghi della repubblica nazi-fascista mi sembra pessima da ogni punto di vista. La terribilità di quel passato che è nella memoria di tanti che l’hanno vissuto non può essere usata come sfondo per una terribilità simbolica, fantastica, costantemente fuori dal verosimile come quella di Sade (e giustamente rappresentata in chiave fantastica da Pasolini). Intendiamoci: anche la terribilità di Sade è vera e credibile, ma su un altro piano, quello dell’ipotesi mentale e della finzione letteraria che toccano qualcosa di nascosto nell’animo umano e nella società».[6]

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Mentre l’analisi di Barthes si soffermava, soprattutto, sulle tematiche portate all’attenzione da Sade e su quanto, a suo avviso, Pasolini avesse mal interpretato il messaggio originario dell’opera letteraria, la riflessione di Calvino si incentra su tutt’altro aspetto, ovvero la trasposizione non solo letteraria, ma anche cronologica operata dal regista. È curiosa, la riflessione che Calvino porta avanti, se la si mette a confronto con quanto Pasolini aveva già dichiarato nel corso di un’intervista durante le riprese di Salò. In una conversazione condotta da Gideon Bachmann, alla domanda che gli venne posta sul significato che, all’epoca, avrebbe potuto assumere Salò, Pasolini rispose con quello che potrebbe essere tranquillamente considerato un manifesto poetico.

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

«Come lei sa il film è preso dalle “120 giornate di Sodoma” di De Sade – afferma il regista – ma è ambientato durante la Repubblica di Salò, cioè circa il ’44 – ’45. Quindi, c’è molto sesso, ma il sesso presente nel film è il tipico sesso di De Sade, cioè un sesso la cui caratteristica è esclusivamente sadomasochistica, in tutta l’atrocità dei suoi dettagli e delle sue situazioni. Ora, a me interessa questo sesso appunto, come interessa a De Sade, per quello che è. Ma nel mio film tutto questo sesso assume un significato particolare, ed è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano, è la mercificazione del corpo umano, la riduzione del corpo umano a cosa, che è tipica del potere, di qualsiasi potere. Quindi, il mio film è un film contro qualsiasi forma di potere e precisamente contro quello che io chiamo “l’anarchia del Potere”. Ed è questa la ragione per cui io ho scelto Salò e la Repubblica fascista di quel periodo, perché mai come in quel momento il potere è stato anarchico, è stato completamente arbitrario e e gratuito. Poteva fare qualsiasi cosa».[7]

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

La componente recuperata dal romanzo, quindi, viene ridotta all’osso e le intenzioni di Pasolini sono chiare: recuperare il freddo razionalismo esaltato e descritto da De Sade con il fine ultimo di condurre un’analisi sui meccanismi che regolano il potere, tra chi lo esercita e chi lo subisce. Calvino si pone in posizione polemica nei confronti della scelta di ambientare la pellicola durante un preciso periodo storico, cioè durante l’istituzione della Repubblica di Salò da parte di quello che era stato il vertice del governo fascista. In realtà, per quanto lo scrittore si soffermi a distinguere la componente “reale” messa in scena da Pasolini e quella “fantastica” di Sade, questa distinzione viene a cadere nel momento in cui si confrontano gli intenti dei due autori. Pur essendo state realizzate a distanza di molti secoli l’una dall’altra, sia l’opera letteraria di de Sade che la trasposizione cinematografica operata da Pasolini si presentano come due spunti di riflessione e critica per la società in cui sono state realizzate. Mentre De Sade porta il lettore a riflettere attraverso l’esaltazione del pensiero illuminista molto in voga nella Francia del suo tempo, Pasolini mette in guardia lo spettatore sulle dinamiche di potere politico ed economico. Se l’Italia del dopoguerra era riuscita a liberarsi dal giogo politico della dittatura fascista, a breve, con l’avvento del tardo capitalismo e della globalizzazione, sarebbe arrivata un’altra forma di potere che avrebbe incatenato le masse a sé in modo irreversibile per gli anni a venire.

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Calvino, come molti altri intellettuali e critici cinematografici, opera una precisa analisi della pellicola e procede a elencare cosa non funzioni dal punto di vista narrativo e strutturale. Furono in molti a non aver amato l’ultima fatica cinematografica del cineasta friulano e uno dei casi più interessanti, forse proprio per la sua natura “non cinematografica” ma profondamente letteraria e introspettiva, si ritrova in una riflessione – sarebbe, infatti, difficile etichettarla come vera e propria recensione cinematografica – elaborata da Leonardo Sciascia sulla rivista «Rinascita». Sciascia non solo fu uno dei principali scrittori italiani attivi nel corso del Novecento, ma, nel corso della sua attività letteraria, lavorò anche come una delle firme più importanti di alcuni tra i principali quotidiani diffusi a livello nazionale. 

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Tra le varie testate con cui lo scrittore e giornalista collaborava si annovera «Rinascita», rivista italiana fondata nel 1944 da Palmiro Togliatti e, di conseguenza, politicamente allineata con il Partito Comunista Italiano. Nel momento in cui Sciascia collabora alla testata, la rivista ha ormai perso quasi tutta la carica ideologica[8] che il suo fondatore aveva cercato di imprimergli; si tratta di un settimanale – comunque dalla forte componente comunista – ma che sostanzialmente assume le vesti di una rivista culturale e di attualità, non si configura più come guida del Partito.

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Sciascia esordisce a parlare del film di Pasolini con una riflessione più sulla forma che sui contenuti presentati dal lungometraggio: «Ho visto una volta, per cinque minuti, un film pornografico. A differenza di Catone, […] non sapevo quali sarebbero state le mie reazioni di fronte a un simile spettacolo. Presumevo anzi mi sarebbe piaciuto, piacendomi la letteratura erotica e libertina. Mi sono invece trovato davanti a dei corpi umani ridotti a pura e triste meccanica e ho fatto l’immediata constatazione che di pornografico, in un film pornografico, ci sono soltanto gli spettatori. Se fossi rimasto oltre, mi sarei molto annoiato e un po’ vergognato. Giorni addietro, a Roma, vedendo l’ultimo film di Pasolini mi sono trovato in una condizione del tutto diversa. Questo per dire subito che se sono arrivato a sperare che questo film lo vedano in pochi, ci sono arrivato da ben altra parte. Mentre le immagini scorrevano sullo schermo, non mi sono sentito pornografo ma vittima. Vittima del dovere di vederlo, vittima dell’attenzione con cui ho sempre seguito Pasolini, vittima – perché non dirlo? – del mio cristiano amore per lui, di un amore che forse sfiora il concetto – cristiano e cattolico – della reversibilità».[9]

Salò o le 120 giornate di Sodoma
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Il riferimento alla pornografia se per alcuni versi appare azzeccato, soprattutto se si considera che il regista stesso del film, nel corso di vari interventi e interviste rilasciate, ha ribadito e sostenuto la volontà di raccontare con Salò anche la mercificazione dei corpi, dall’altra può apparire fuorviante. In un mondo in cui ormai è entrato a pieno regime il sistema economico capitalistico, non fa più differenza il tipo di merce che viene venduta, purché si venda – compresa quella umana. È curioso come Sciascia, pur dimostrando di aver centrato il punto della storia, comunque commenti non solo gli aspetti da lui considerati negativi della pellicola, ma la vera e propria esperienza da spettatore che ha sperimentato in prima persona. 

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Sciascia parla di pornografia in relazione al sentimento di vittimismo che, inevitabilmente, ricade sullo spettatore durante la visione del film. Non è un caso, infatti, che uno dei termini più ricorrenti nel corso della sua considerazione sia proprio la parola «vittima», parola che viene riferita non solo alle (effettive) vittime sacrificali presenti nella storia, ma, nello specifico, allo spettatore in sala. La sensazione di dolore, veicolata attraverso tutti i soprusi che i gerarchi operano sui sedici giovani scelti, non si limita meramente a sconvolgere lo spettatore o a provocare uno shock, più o meno forte in base alle abitudini di chi assiste il film. 

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

La sensazione di disgusto e di vergogna a cui fa riferimento Sciascia è, però, percepita dallo spettatore con un misto di straniamento: tutti i rituali che vengono istituiti a inizio della permanenza nella villa hanno uno sfondo, in qualche modo, familiare. I soprusi condotti a danno delle vittime si svolgono in un contesto “riconoscibile”, e cioè in sale adornate con divani, tavolini e pianoforti, con lunghi tappeti e carta da parati, dove si respira quasi l’atmosfera di un salotto. Questa certa “riconoscibilità” e familiarità di un ambiente, unito alla crudeltà con cui i giovani vengono trattati, provoca certamente un cortocircuito nello spettatore, che sperimenta in prima persona sentimenti perturbanti. La scenografia, curata da Dante Ferretti, seppur su scala maggiore, trattandosi di spazi molto ampi all’interno di una vera e propria villa, rievoca l’ambiente di un salotto casalingo, con mobili per niente distanti da quelli che qualcuno presente in sala poteva aver visto nella casa di qualche parente appartenente alla generazione precedente. A tal proposito spiega, infatti, Pasolini: «Il potere è sempre codificatore e rituale: senza volerlo mi sono trovato, in questo film, a rappresentare sia la vita perbene piccolo borghese con i suoi salotti, i suoi tè, i suoi doppio petti eccetera, eccetera… da una parte; dall’altra mi sono trovato a rappresentare la cerimonia nazista, in tutta la sua solennità macabra, così tetra e povera».[10]

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Se si prendono in considerazione alcuni film che, quasi contemporaneamente a Salò, trattavano di storie ambientate durante i regimi fascisti o nazisti, si possono notare alcuni particolari che rendono la scelta di Pasolini e di Ferretti ancora più efficace e radicale. Con una scenografia davvero “semplice” e quasi scarna, senza servirsi di particolari costruzioni e allestimenti, l’attenzione dello spettatore è, necessariamente, catalizzata sui personaggi che popolano la scena. Dal punto di vista della composizione scenica, inoltre, la maggior parte dei rituali si svolgono con una disposizione dei personaggi – ma potremmo dire dei corpi – ben precisa: i soggetti ripresi occupano quasi sempre una posizione centrale, niente è marginale. 

Salò o le 120 giornate di Sodoma
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

La violenza, che viene perpetrata in ogni sua forma, funziona anche come una sorta di campanello d’allarme; Sciascia decide, però, di non approfondire questo aspetto nel suo discorso. Fino al momento in cui viviamo immersi in una dinamica di potere arrogante e prepotente, è difficile aprire gli occhi e guardarsi intorno: il mondo sta cambiando e non esiste, propriamente, un responsabile dell’avvento di un nuovo sistema economico – come invece, esistevano figure responsabili per tutti i crimini perpetrati durante il nazi-fascismo. Questa nuova forma di controllo e di potere, data, tra le altre cose, anche (e soprattutto) dall’insediarsi a livello capillare del sistema capitalistico, è una forma di controllo molto più subdola ed evanescente rispetto al regime che aveva governato l’Italia per un ventennio intero; solo con immagini forti e inusuali lo spettatore può rendersi veramente conto di ciò che sta succedendo, come se fosse stato improvvisamente svegliato dal suo torpore con una doccia di acqua fredda.

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Sciascia, ad ogni modo, nel novero degli intellettuali che hanno commentato Salò e di cui si conservano gli interventi o articoli apparsi su varie riviste, non è l’unico a sottolineare il senso di disturbo provocato dalle immagini sullo schermo. Intervistata da Giovanni Ricci sul lascito culturale di Salò, ad esempio, la scrittrice e poetessa Dacia Maraini dava – con atteggiamento molto più distante e “oggettivo” rispetto allo scrittore siciliano nei confronti dell’argomento trattato – la seguente risposta: «Salò o le centoventi giornate di Sodoma è un film in certo modo sgradevole, però è anche una parabola abbastanza chiara sulla violenza. In fondo le cose che infastidiscono sono le cose ambigue: Pasolini è invece estremamente chiaro, anche troppo, a tal punto che diviene quasi astratto, simbolico. Questa metafora sul Potere e sulla sua violenza verso gli oppressi si differenzia dal film della Cavani [Portiere di notte, ndr] che era tutto basato su un coinvolgimento della vittima dentro il male. Qui c’è un distacco nettissimo, manicheo: ci sono gli oppressi e gli oppressori, e fra di loro non si instaurano rapporti se non di brutale violenza. Forse la cosa che più colpisce non è tanto la violenza quanto la parte escrementizia: siamo abituati a vedere sia il sesso che la violenza, ma la parte escrementizia è nuova, e dà una certa impressione. Poi una cosa che dice Moravia e su cui io sono d’accordo è che il film non è sadico, perché non è fatto da una persona sadica: i film sadici sono i film americani. […] Salò, al contrario, è un film sul sadismo di una persona che non è affatto sadica».[11]

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Maraini menziona il «film della Cavani», vale a dire Il portiere di notte (1974), pellicola incentrata su una relazione sadomasochista che viene a instaurarsi tra un’ex detenuta in un campo di concentramento nazista e un ufficiale delle SS, responsabile di averla maltrattata durante la detenzione. Per quanto alcuni critici[12] abbiano sottolineato una certa continuità tra Salò e Il portiere di notte – ma si ricordano altri film dalla tematica simile, tra cui Salon Kitty (1975) di Tinto Brass[13] – in realtà, il linguaggio cinematografico e la narrazione di cui Pasolini e Cavani si servono non coincidono esattamente. 

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Oltre all’ambientazione, necessariamente differente tra i due film, Pasolini non guarda con occhio provocatorio alle vicende che riprende; per questo motivo l’affermazione di Sciascia relativa alla carica pornografica del film andrebbe inquadrata meglio, se non altro per differenziare cosa si può ritenere pornografico e cosa no. Mentre Il portiere di nottepuò rientrare, effettivamente, nel filone della nazisploitation[14], lo stesso non si può dire per Salò, per quanto parte della critica consideri la pellicola una sorta di capostipite di questo preciso sottogenere. Pasolini non rappresenta forme di sesso e violenza in modo gratuito e, per quanto disturbante, ogni scena contribuisce a creare un mosaico di situazioni che, se non altro, rendono lo spettatore consapevole dell’esistenza di un mondo «all’incontrario». 

Salò o le 120 giornate di Sodoma
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

L’osservazione redatta da Sciascia, man mano che procede, si carica di un tono e di espressioni sempre più emotive e sentimentali: «Ho sofferto maledettamente, durante la proiezione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non chiudere gli occhi, davanti a certe scene: e nel buio diciamo fisico che si faceva in me, precario conforto a quell’altro, morale e intellettuale, che dilagava dallo schermo, disperatamente e come annaspando, cercavo nella memoria immagini d’amore. Poi venne, da una delle vittime, da una di quelle che anche nelle didascalie iniziali, coi loro nomi anagrafici, sono definite vittime – venne l’invocazione-chiave, l’invocazione che spiegò il senso del film e l’impressione che produceva in me: “Dio, perché ci hai abbandonati?”. Lo stesso grido di Cristo nel Vangelo di Marco: “Eloi, Eloi, lama sabactani?”»[15]

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

Se altri intellettuali si erano comunque espressi sulle sensazioni provocate dalla visione della pellicola, Sciascia non manca di porre particolare attenzione ed enfasi sugli aspetti che lo hanno più turbato. Il riferimento, in particolare, a quelle che sarebbero state le ultime parole pronunciate da Gesù, conferisce particolare pathos a tutta la riflessione scritta. Nella storia che Pasolini porta sullo schermo non c’è presenza di alcuna divinità e, di conseguenza, viene meno anche l’abbandono da parte di quest’ultima. Tutte le vicende che scorrono nel corso della storia corrispondono a situazioni che l’uomo ha creato e in cui l’uomo – o, sarebbe meglio dire, l’essere umano – è rimasto incastrato come vittima. Sarebbe troppo semplice, come soluzione, cercare conforto in un al di là e accusare il divino di non essersi curato delle vicende umane, seguendo gli stessi meccanismi di proiezione che caratterizzavano i comportamenti degli eroi omerici. 

Salò o le 120 giornate di Sodoma
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini

La considerazione di Sciascia rappresenta una sorta di “anomalia” in tutti gli articoli che i principali intellettuali italiani hanno redatto in relazione al film di Pasolini. Con un tono intimo e personale, servendosi di una scrittura al limite del diaristico, Sciascia non si spreca in elogi, ma racconta al lettore l’esperienza disturbante a cui è andato incontro durante la visione. Se, nell’ottica dello scrittore il film non funziona, certamente, almeno nel suo caso, ha funzionato il “mezzo”, cioè il cinema, attraverso cui la storia è rappresentata, dimostrando (seppur involontariamente) che le immagini, in base a come si usano, hanno una presa e un potere potenzialmente sconfinato su chi le vede scorrere sullo schermo.


[1] Pier Paolo Pasolini, conferenza Stampa di Salò o le 120 giornate di Sodoma, moderata da Carlo A. Giovetti («Il Giorno»), Teatro 15 Cinecittà, Roma, 9 maggio 1975.

[2] «Un flop nella rappresentazione (sia di Sade che del sistema fascista) […]. Per questo mi chiedo se, alla fine di una lunga concatenazione di errori, Salò di Pasolini non sia, tutto sommato, un oggetto propriamente sadiano: assolutamente irredimibile; sembra, infatti, che nessuno sia in grado di redimerlo.», Roland Barthes, Sade-Pasolini, in «Le Monde», 16 giugno 1976.

[3] Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), conosciuto anche come il Marchese de Sade, fu uno scrittore e attivista politico francese, vissuto durante la Rivoluzione. Tra i suoi romanzi più noti si ricorda le 120 Giornate di Sodoma [120 Journées de Sodome], scritto tra il 1784 e il 1790, durante il periodo trascorso in carcere per aver condotto una vita libertina secondo gli ideali dell’epoca. Il romanzo, considerato massima esaltazione della razionalità illuministica dilagante in quel periodo in Francia, dipinge un mondo completamente capovolto, dove le virtù vengono sistematicamente schiacciate dal vizio, unica forma possibile di vita secondo l’autore.

[4] «La feroce provocazione di Pasolini colpì nel segno, scatenando proteste vigorose e lunghe persecuzioni giudiziarie: il produttore Alberto Grimaldi subì processi per oscenità e corruzione di minori e nel 1976 fu decretato il sequestro della pellicola, che scomparve dagli schermi prima di essere rimessa in circolazione nel 1978.», Serafino Murri, in «Enciclopedia del cinema», Treccani, 2004, https://www.treccani.it/enciclopedia/salo-o-le-120-giornate-di-sodoma_(Enciclopedia-del-Cinema)/.

[5] Tra i vari articoli che difesero a spada tratta l’opera di Pasolini se ne ricorda uno in particolare, redatto dal regista Mario Soldati in cui il regista si pronunciava apertamente contro la censura che aveva colpito il film: «Ecco, in quei momenti, mentre il pubblico sfollava adagio verso l’uscita, ho capito what’s the matter, che cosa davvero importa in questo film: qual è il suo vero argomento. Non si tratta di Salò, si tratta del mistero della nostra esistenza, e il pubblico stesso, in quei momenti, ancora lo capiva. Invece le polemiche, le repressioni ufficiali, le denunce, il sequestro, il processo che oggi si celebra a Milano e purtroppo anche le critiche di molti dei giornalisti si riferiscono a Salò repubblichina e sono forse, nascostamente, alimentate da un turbamento diffuso e inconfessabile, che riguarda il girone della Merda.» Mario Soldati, Sequestrare “Salò”?, «La Stampa», 30 gennaio 1976.

[6] Italo Calvino, Sade è dentro di noi (Pasolini, Salò), in «Corriere della Sera», 30 novembre 1975.

[7] Pier Paolo Pasolini, Intervista sotto l’albero, a cura di Gideon Bachmann, 1975.

[8] «Il mensile «Rinascita» fu una rivista ideologica? La risposta prevalente è affermativa e la storiografia su questo sembra concordare. D’altronde lo stesso Togliatti la presentò come «una guida ideologica». […] «Rinascita» fu più aperta, più elastica, meno prevedibile di una rivista ideologica, ma al contempo più chiusa, più rigida, più allineata di una rivista non ideologica. In questo forse sta proprio l’originalità e il tratto caratteristico del mensile diretto da To- gliatti: non soltanto un periodico di partito, né certamente uno strumento autonomo dal partito in cui si analizzava, anche criticamente, la linea degli organismi dirigenti. Di fatto una forma innovativa di rivista, anche perciò ricca di sfaccettature e non esente da ambiguità.», Salvatore Mura, «Rinascita». La Rivista Di Togliatti Dal Dopoguerra Al Centro-Sinistra in «Giornali italiani dopo il 1950. Questioni storiche e linguistiche», a cura di Eugenio Salvatore, Paola Carlucci, Edizioni Università per Stranieri di Siena, Siena, 2022, p. 261.

[9] Leonardo Sciascia, Riflessioni su Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, «Rinascita», n. 49, 12 dicembre 1975.

[10] Pasolini, Intervista sotto l’albero, cit.

[11] Dacia Maraini, “Salò” ed altre ipotesi in «Salvo Imprevisti», a cura di Giovanni Ricci, n. 7, III, gennaio – aprile 1976, p. 13.

[12] «The only films Insdorf addresses that might qualify as Nazisploitation are avant-garde European works such as Liliana Cavani’s Il portiere di notte (The Night Porter, 1974) or Pier Paolo Pasolini’s Salò o le 120 giornate di Sodoma (Salò, or the 120 Days of Sodom, 1975). These films, which Marcus Stiglegger terms sadiconazista, an Italian neologism meaning ‘sadism with Nazis’, have elicited strongly polarized critical opinion.» Daniel H. Magilow, Introduction in «Nazisploitation! The Nazi Image in Low-Brow Cinema and Culture» a cura di Daniel H. Magilow, Elizabeth Bridges, Kristin T. Vander Lugt, Continuum, Londra, 2011, p. 7.

[13] «Se la fonte d’ispirazione più diretta per il film resta probabilmente La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, Il portiere di notte ha involontariamente generato una nidiata malefica di pellicole che, senza nulla trattenere della profondità e ambiguità dell’originale, si sono limitate a replicare maldestramente gli aspetti più compiaciuti del famigerato binomio sesso e svastica: a partire dal Salon Kitty di Tinto Brass (1975) giù giù lungo tutta una estenuante serie di titoli trash.» Andrea Maioli, Il portiere di notte, in «Enciclopedia del cinema», Treccani, 2004, https://www.treccani.it/enciclopedia/il-portiere-di-notte_(Enciclopedia-del-Cinema)/#:~:text=Accompagnato%20dall%27odore%20di%20zolfo,e%20le%20catalogazioni%20risultano%20impossibili.

[14] Il termine nazisploitation fa riferimento a un sottogenere cinematografico, derivante, a sua volta, da un altro sottogenere, quello del sexploitation (dall’unione delle parole inglesi sex, “sesso” ed exploitation “sfruttamento”). Il film di sexploitation si caratterizzano per un modo di inquadrare situazioni di sesso o, più in generale, situazioni oscene in modo gratuito, cioè senza che siano effettivamente di rilievo per la trama o la struttura narrativa. I film di nazisploitation recuperano questa dimensione, con l’aggiunta di ambientazioni o motivi che rievocano la Germania nazista e il periodo della Seconda guerra mondiale.

[15] Sciascia, Riflessioni su Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, cit.

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