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di virginia

Call me by your name è un film che, ormai, tutti hanno visto. Sono passati sette anni dalla sua uscita – per la precisione, per quanto riguarda l’Italia, ne sono trascorsi sei. Luca Guadagnino ha, nel frattempo, diretto un certo numero di progetti (tra lungo, medio, cortometraggi, documentari e un’intera serie televisiva) e prodotto un altrettanto consistente numero di prodotti audiovisivi (tra cui il famigerato Enea di Pietro Castellitto). Timothée Chalamet ha proseguito la sua ascesa verso l’olimpo hollywoodiano, rendendosi protagonista di una saga fantascientifica, due film storici in costume e di un musical incentrato sulla vita del cioccolatiere più famoso del mondo. Per quanto riguarda Armie Hammer… sappiamo tutti cosa sia successo con Armie Hammer. Call me by your name è stato un fenomeno mediale, quella che gli anglosassoni definirebbero una sensation, un colpo di fulmine. Chi, fino a quel momento, non aveva mai sentito neanche lontanamente parlare del regista italiano, si è ritrovato in una notte del 2018 a fare il tifo perchè riportasse a casa più di una statuetta dorata. Il film ha lanciato la carriera del giovane Chalamet – che comunque aveva all’attivo una serie di ruoli davvero notevoli, tra cui si ricorda il suo lavoro in Miss Stevens (2016) – e ricordato al resto del pubblico che Armie Hammer poteva essere qualcosa di più dell’arrogante gemello Winklevoss in The social network (2010). Insomma, di acqua sotto i ponti, da quel lontano 2017, ne è certamente passata. Ma che fine hanno fatto tutti? 

“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

Call me by your name viene distribuito in Italia con il titolo di Chiamami col tuo nome, un anno dopo rispetto alle sue premiére festivaliere. Presentato in anteprima al Sundance Festival nel gennaio del 2017, arriva in Europa nel febbraio dello stesso anno grazie alla Berlinale. Dopo un’aspra ricezione (con tanto di fischi in sala) da parte di pubblico e critica del suo precedente lavoro, A bigger splash (2015), durante la 72. Mostra del Cinema di Venezia, il regista sceglie di non ritornare sul Lido e sceglie la capitale tedesca per presentare la sua nuova pellicola. Si tratta del quinto lungometraggio diretto da Guadagnino e vale la pena soffermarsi un attimo sulle vicende produttive che stanno a monte della pellicola. Dopo che i produttori Peter Spearse Howard Rosenman avevano acquisito i diritti dell’omonimo romanzo scritto da André Aciman, iniziarono la ricerca di un regista a cui affidare la direzione del film (tra i vari avevano pensato anche a Muccino e Özpetek!)[1]. Il candidato ideale viene trovato nella figura di James Ivory, regista e sceneggiatore britannico, che acconsente a co-dirigere il film con Guadagnino – inizialmente coinvolto nel progetto come location scout, la figura addetta alla ricerca di un luogo dove ambientare il set.

“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

L’impegno di Guadagnino con altri due progetti di più ampio respiro (il già citato A bigger splash e Suspiria, uscito nel 2018) lo porta a distogliere l’attenzione da Call me by your name; solo in un secondo momento accetterà la direzione del film, da solo, con Ivory alla sceneggiatura. Guadagnino considera questo progetto, se non un lavoro minore, comunque qualcosa di più “tranquillo” rispetto ai due film che circondano Call me by your name; decide di girarlo in luoghi che ha ben presente, vicino alla sua abitazione di Crema, e si serve dell’aiuto di amici e collaboratori di vecchia data per la realizzazione della pellicola. Esther Garrel, che nel film interpreta Marzia, uno degli interessi amorosi del protagonista Elio, viene ingaggiata senza provino, sulla fiducia; il casting di Amira Casar nel ruolo di Annella, madre di Elio, avviene pressoché nello stesso modo. Il regista sceglie una casa che conosce bene, una villa sontuosa nei pressi di Moscazzano, nel cremonese e chiede a Giulia Piersanti, altra sua amica, di curare i costumi. L’atmosfera di un “film fatto in casa” è rievocata dalla stessa Piersanti, che per scegliere i costumi da far indossare a Elio per ricreare la moda in voga nei primi anni Ottanta, va a pescare magliette direttamente dall’armadio di suo marito[2].

“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

Call me by your name è, certamente, molto più di un film “casalingo”, ma non sono soltanto le numerose nomination agli Academy Awards a tradire questo senso di familiarità che si è creato durante le riprese. Oggi, con il senno di poi, si può parlare di una vera e propria reazione di massa al film, come non se ne vedevano da tempo. Non solo l’immaginario descritto dal regista italiano è entrato rapidamente nella vita degli adolescenti (o, sarebbe meglio dire degli spettatori coetanei a Elio) ma anche nei riferimenti della musica pop. Il video in cui Chalamet baciava spontaneamente il tatuaggio di una fan durante la presentazione di The King (2019) alla 72. Mostra del Cinema di Venezia diventò immediatamente virale; così come la canzone di Lil Nas X, intitolata come il film, uscita due anni dopo. Per quanto la ricezione da parte della fascia d’età più giovane sia stata positiva da creare veri e propri fandom, lo stesso non si può dire per buona parte della critica, soprattutto statunitense.

Call me by your name
“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

Se David Ehrlich, storica firma di IndieWire, definiva il film un «queer masterpiece» (“un capolavoro queer), il suo entusiasmo non era condiviso dalla maggior parte dei suoi colleghi. In modo quasi immediato all’uscita negli Stati Uniti, subito si è creato un dibattito intorno alla rappresentazione sullo schermo di quella che era stata etichettata come una relazione disequilibrata, soprattutto per la differenza d’età che coinvolge i due protagonisti, Elio (Timothée Chalamet) e Oliver (Armie Hammer). Sia nel libro che nella trasposizione cinematografica, tra i due personaggi intercorrono 7 anni (Elio ne ha 17 e, di conseguenza, Oliver 24), cosa che ha portato anche firme importanti e affermate nel mondo della critica a disdegnare il film. Subito si sono creati schieramenti tra chi assicurava che tutto andava bene, dato che l’età del consenso in Italia è più bassa rispetto a quella negli Stati Uniti (si parla, infatti, del raggiungimento dei 14 anni) e altri che comunque disapprovavano la scelta di mettere in mostra un “uomo adulto” che intraprende una relazione fisica e amorosa con un “bambino”. 

Call me by your name
“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

Il dibattito sembra uscire fuori dai confini tracciati dall’ambiente della critica cinematografica, fino a coinvolgere altre personalità del mondo dello spettacolo che sentono il bisogno di esprimere il proprio parere a riguardo. Karamo Brown, presentatore e attivista statunitense, noto soprattutto per la sua partecipazione al reality targato Netflix Queer Eye, parla di una vera e propria «violenza sessuale»[3] in riferimento al film e all’atteggiamento del personaggio di Oliver nei confronti del più giovane Elio. Sono parole forti, quelle del presentatore, ma indicative della reazione del pubblico statunitense; parlare di violenza sessuale è sicuramente fuori luogo per un film del genere – soprattutto se si fa ricondurre questa etichetta alla differenza di età tra i due personaggi – dato che tutto quello che avviene, avviene con il consenso di entrambi i personaggi. Per quanto sette anni possano essere una distanza importante, entrambi i protagonisti sono inseriti nel mondo accademico e i loro ritmi di vita scorrono in maniera molto simile. Con questo non si intende dire che vivano la stessa vita, anzi, la differenza di età che separa i due la si vede anche in piccoli gesti quotidiani (Elio che millanta di aver quasi fatto sesso con Marzia mentre tutti fanno colazione, rende la sua inesperienza tangibile, fino a che, qualche scena dopo, non arriva al punto di dichiarare lui stesso quanto poco sappia delle «cose che contano»); ma da un punto di vista prettamente intellettuale, riescono a conversare senza problemi di Heidegger, Eraclito, Lizst e Busoni – come due compagni di classe coetanei. Non sarebbe corretto paragonare la risposta che Call me by your name ha ricevuto a quella di altre opere (letterarie o cinematografiche che siano) che si incentrassero su una relazione disequilibrata dal punto di vista anagrafico. Non c’è mai stato, di fatto, nessun “effetto Lolita” – ma ricollegare la storia dei protagonisti a un atto di violenza sessuale è, se non altro, fuorviante e viene da chiedersi dove stia il confine tra discernimento e screditamento di un’opera.

“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

Le critiche non si limitano a sottolineare la differenza d’età. Richard Brody, redattore di lunga (lunghissima) data del New Yorker, si lamenta del fatto che nel film non si veda mai, neanche per un momento, una scena in cui i genitori di Elio parlano apertamente tra di loro a quello che succede al figlio[4]. Questa recriminazione appare come un tentativo di arrampicarsi sugli specchi e sorge spontanea una domanda: perché allo spettatore dovrebbe importare di quello che dicono i genitori di Elio, visto che sono presentati (e come tali rimangono per tutta la durata della pellicola) come comprimari? O meglio, è rilevante ai fini della storia narrata sapere che cosa pensano i Perlman? Ovviamente no, dato che la storia viene vissuta dallo spettatore unicamente dal punto di vista di Elio. Lo spettatore è portato da tutto l’impianto narrativo a empatizzare con il protagonista, entrando nella sua camera da letto, seguendo il suo flusso di pensieri e condividendo l’attesa di una notte che sembra non finire mai. Brody cerca un inspiegabile realismo in un film che, per quanto possa raccontare vicende se non reali, comunque verosimili, in realtà propone una vera e propria cartolina di un periodo preciso in Italia. Senz’ombra di dubbio nella Lombardia dei primi anni Ottanta (se vogliamo essere precisi, nella Pianura Padana dei primi anni Ottanta) non ci sarebbero stati genitori pronti ad accettare a braccia aperte l’omosessualità (o la fluidità sessuale) del figlio, ma è davvero questo l’approccio che Guadagnino ha adottato per raccontare la storia di Elio e Oliver?

Call me by your name
“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

Il fatto che i genitori non si preoccupino affatto dell’orientamento sessuale del figlio rientra precisamente in quel processo di mitizzazione di un’epoca ormai andata e conclusa che opera il regista con la pellicola. Immaginarsi una situazione di libertà del genere rientra in un meccanismo di idealizzazione di un’epoca non molto diverso da quello che aveva realizzato Quentin Tarantino nel mettere in scena, con un finale alternativo e re-immaginato, le vicende cruente consumatesi a Cielo Drive o durante la Seconda guerra mondiale. Si tratta di una sorta di riscrittura della storia; le parti negative che caratterizzavano gli anni Ottanta sono state chirurgicamente rimosse – e non a caso in quest’ottica risulta vagamente macchiettistica la scena in cui i due protagonisti si imbattono in un busto di Mussolini, visibile sulla porta di un casolare nella campagna padana. Elio commenta brevemente su quanto l’Italia sia ancora un paese fortemente contraddittorio, ma la scena si conclude con una breve linea di dialogo e la politica resta fuori dall’idillio che i due stanno vivendo. Guadagnino sposta l’ambientazione del libro dal 1987 al 1983 e così facendo impedisce ai personaggi di affrontare una tematica importante nel mondo gay di quel decennio, cioè la diffusione dell’AIDS.

Call me by your name
“Call me by your name” di Luca Guadagnino (Credits: Sony Pictures)

Samuele Grassi, autore di un saggio analitico[5] in cui passa in rassegna e confronta la pellicola di Guadagnino con Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi, evidenzia come non ci sia traccia di alcun riferimento alla politica o agli Anni di Piombo, periodo di forte turbolenza politica e sociale da cui l’Italia era appena uscita. È vero che, ancora una volta, i riferimenti alla politica risultano sporadici e macchiettistici (vediamo un giovane Beppe Grillo commentare la situazione di Tangentopoli su un televisiore acceso in lontananza), ma è su questo che la narrazione si dovrebbe focalizzare? I Perlman vivono in una villa idilliaca, relativamente isolata dal centro abitato più vicino – che comunque conta poche anime. Il tentativo di Guadagnino è di riportare sullo schermo un’Italia mitica, esattamente come i poeti antichi a cui i protagonisti fanno riferimento nel corso della storia facevano; l’età dell’oro non è mai esistita, ma diventa reale finché i fotogrammi scorrono sullo schermo, solo per due ore – e forse il cinema è anche (è proprio) questo.


[1] «Guadagnino, ingaggiato inizialmente come consulente per le location (il libro è ambientato in Liguria), diventa produttore, inizia a portarlo in giro, vengono fuori i nomi di possibili registi: Gabriele Muccino, Ferzan Ozpetek, Sam Taylor-Johnson». Mattia Carzaniga, La magia di Call me by your name in «RivistaStudio», 24 gennaio 2018. [https://www.rivistastudio.com/call-me-by-your-name-recensione/].

[2] «For Elio, who wears plenty of Lacoste throughout, Piersanti wanted to emphasize his evolved, confident style in the final scene with a bold shirt that came from a vintage shop in Milan. But she is mostly keen on Elio’s burgundy polo shirt and Fido Dido T-shirt. “They are from my husband’s closet,” she reveals. “I love that they will stay forever on film.”», Tomris Laffly, Luca Guadagnino Relied on a Pair of Longtime Friends for ‘Call Me by your Name’ Décor, Costumes in «Variety», 23 novembre 2017 [https://variety.com/2017/artisans/production/call-me-by-your-name-costumes-decor-1202621005/].

[3] « […] There is predatory behavior there that I see, especially in the movie, where Armie Hammer looks dramatically older than this young man. Callie Ahlgrim in ‘Queer Eye’ star Karamo Brown thinks ‘Call Me by Your Name’ is ‘problematic’ because it glorifies ‘predatory behavior’ in «Business Insider», 11 dicembre 2018 [https://www.businessinsider.com/karamo-brown-queer-eye-explains-why-call-me-by-your-name-is-problematic-2018-12?r=US&IR=T].

[4] «For that matter, Guadagnino offers almost nothing of Elio’s parents’ talk about whatever might be going on with their son and Oliver. Not that the parents (played by Michael Stuhlbarg and Amira Casar) are absentee—they’re present throughout, and there are even scenes featuring them apart from both Elio and Oliver, talking politics and movies with friends, but there isn’t a scene of them discussing their son’s relationship. They don’t express anything about it at all, whether approval or fear or even practical concern regarding the reactions of the neighbors». Richard Brody in The empty, sanitized intimacy of “Call me by your name” in «The New Yorker», 28 novembre 2017 [https://www.newyorker.com/culture/richard-brody/the-empty-sanitized-intimacy-of-call-me-by-your-name].

[5] «There is no mention of the early years of HIV in the film, which may be justified by Guadagnino’s change of setting. However, I see Call Me by Your Name as refusing to interpellate the queer archive in important ways, in a time of burgeoning activism and associationism with lasting impact like the 1980s in Italy». Samuele Grassi in Teenage “Somatechnics”: Classed, Gendered, and Racialised Subjectivities in Luca Guadagnino’s Call Me by Your Name and Gianfranco Rosi’s Fuocoammare, 2019 [http://www.gendersexualityitaly.com/?p=3492].

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