di giulia
Prendi Gael García Bernal, prendi Renate Reinsve, prendi una trama dal genere distopico che gira intorno al tema del ricordo, inserisci il tutto in una città senza nome che dovrebbe dare l’impressione di essere in un mondo a noi contemporaneo ma simultaneamente fuori dallo spazio e dal tempo. Questi sono ingredienti che, sulla carta, potevano essere perfetti per la realizzazione di un film pronto a entrare a testa alta nei miei preferiti di quest’anno. Invece, nonostante io sia grande fan dei presupposti di partenza qua sopra elencati, Another End di Piero Messina finisce per essere una delusione.
Non sono bastati alti grattacieli, appartamenti minimalisti e una perenne atmosfera buia e fredda a passarmi la sensazione di stare guardando una storia non facente parte del nostro mondo. Soprattutto perché, nonostante i nobili tentativi, non ci vuole molto a riconoscere la grande piazza del quartiere La Défense di Parigi, con tanto di insegna gialla tipica della metro numero 1 che ha lì il suo capolinea. I mezzi sui quali Gael García Bernal viaggia sconsolato per gran parte della durata del film sembrano, invece, proprio le carrozze decadenti della metro di Roma. Forse questi aspetti sono saltati prima al mio occhio, avendo ben presente entrambe le città, ma sono sicura che l’ambientazione del film non abbia creato l’effetto voluto su nessuno degli spettatori, visibilmente annoiati davanti a scene che non sono molto diverse da quelle che tutti viviamo su un qualsiasi mezzo di trasporto, tornando a casa la sera in una giornata grigia.
Ma passiamo alla parte che più ci prova ad essere di fantascienza, ovvero la trama. Another End, oltre a essere il titolo del film, è anche il nome della nuovissima tecnologia sviluppata da una compagnia di questo mondo simile al nostro ma apparentemente molto lontano, con la promessa di donare a coloro che hanno perso un proprio caro (e non l’hanno ancora accettato) un’ultima occasione per passare con loro del tempo, per un saluto finale “migliore”. Di base, un altro finale. I ricordi dei deceduti, intelligentemente preservati dagli addetti della compagnia – in che modo o in che luogo, non ci è dato saperlo – vengono inseriti nel corpo di un “ospite” volontario e compatibile. In cambio di soldi, quindi, queste persone decidono di mettersi a disposizione e diventare veicolo dei ricordi di sconosciuti, impersonificando così essi di fronte ai loro familiari e/o amici, senza poi ricordare niente una volta tornati alla loro vita normale. Così facendo, coloro che decidono di utilizzare la tecnologia come clienti, potranno passare qualche ultima ora con una persona che visivamente non somiglia a chi loro vorrebbero vedere, ma che si comporta e pensa esattamente come tale.
La regola più importante è una: mai e poi mai va fatta capire all’ospite, e di conseguenza alla mente al suo interno, la verità. Sarà Ebe (Bérénice Bejo), lavorando lei stessa nel programma, a convincere suo fratello Sal (Gael García Bernal) di partecipare ad Another End. Apprendiamo che Zoe, la sua compagna, è morta per colpa di un tragico incidente stradale mentre lui era alla guida. Il senso di colpa che lo divora ogni giorno non ha mai permesso a Sal di superare la morte dell’amata, arrivando fino al punto di cercare lui stesso di imporsi la stessa fine. Inizia il processo e dopo qualche visita preliminare da parte, anche, di uno psichiatra, ecco che viene assegnata al caso una donna (nelle sembianze di Renate Reinsve) perfetta per il “ruolo” di Zoe. I colori freddi della finta città diventano caldi e Sal, dapprima titubante, inizia ad affezionarsi a questa nuova persona che gli parla come un tempo faceva l’amore della sua vita. Tagliando corto, succederà esattamente quello che tutti si aspettano: l’avidità vince sulla logica, rendendo l’uomo incapace di abbandonare la ragazza e costretto a persuadere la sorella a eccedere sul numero degli incontri possibili assegnati a ognuno dei clienti di Another End.
Da qui ogni avvenimento, anche il più studiato dei tentati colpi di scena, risulta piatto e prevedibile. Ho pensato più volte di stare assistendo al finale del film e, ogni volta, sono stata smentita da un’ulteriore scena non utile a una miglior riuscita della storia. Nonostante sia sempre felice di guardare Gael García Bernal recitare per il più lungo tempo possibile, questo non è bastato per farmi gradire la visione del film fino alla sua fine. Va chiarito che tutte le performance attoriali sono positive. Reinsve brilla in entrambe le versioni del suo personaggio (quella reale e quella del copro volontario), confermando ancora una volta il mio desiderio di vederla recitare in più produzioni possibili. Anche Bejo è molto abile a mostrarsi apprensiva nei confronti di Sal, le conversazioni in spagnolo tra i due sono alcune delle parti che più funzionano del film. Però, questa a tratti eccessiva attenzione che Ebe pone nei confronti del fratello, inizia presto a far pensare allo spettatore che ci sia qualcosa che non va, qualcosa che lei sta tenendo nascosto.
Cercando di trarre delle conclusioni, il principale problema di Another End è che non ne si capiscono mai le intenzioni. Il genere sci-fi rimane sempre da sfondo alla storia, senza nessun tipo di approfondimento; allo stesso tempo però non si tratta né di un film d’amore, né di un film che si concentra sui legami famigliari. Non mi sento neanche di annoverarlo nell’insieme di quei film che raccontano storie di incontri casuali, enfatizzando sull’importanza delle relazioni fra umani. Rimane quindi tutto in sospeso. Ci aspettiamo per l’intera durata l’arrivo di un qualsiasi tipo di messaggio che si allontani dalla pura rappresentazione di un uomo triste e incapace di venire a patti con la realtà in cui si è ritrovato, ma quando finalmente la rivelazione chiave del film giunge, ti lascia comunque insoddisfatto, rendendo così inutile anche quel minimo di sviluppo personale che Sal aveva portato avanti fino a quel momento.