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di pavel

È uscita in vod, dopo mesi di attesa, Saltburn, la seconda opera firmata da Emerald Fennell, regista e sceneggiatrice britannica canonizzata da Promising Young Woman (uno dei miei film preferiti, in assoluto). Dire che le aspettative erano altissime è scontato. Altissime almeno alla notizia della sua gestazione perché, dopo gli indizi sul cast e la trama, si erano largamente ridimensionate in quanto, se c’è una cosa che ho capito nell’epoca della mercificazione audiovisiva del tutto, le opere vistosamente esibite come eventi unici ed irripetibili, si rivelano un fiasco. Un po’ come è accaduto a C’è ancora domani. La pubblicità me lo aveva venduto come un Mamma Roma 2.0 rivisitato da Cavarero, un Titane dove Ducorneau è Anna Marchesini, un’elegia su Franca Viola diretta da Nolan… Insomma, manco Sorrentino fa così tanta pubblicità. La visione, invece, mi è sembrata piuttosto uno spot per le politiche sociali promosso dal ministero degli Interni in collaborazione con Serena Dandini e Virginia Raffaele. Ma vabbè.

Jacob Elordi e Barry Keoghan in “Saltburn” di Emerald Fennell (Credits: Amazon MGM).

Barry Keoghan, che a me sembra un contadino analfabeta promosso da circostanze sconosciute a Paolo il Converso, un piccolo fiammiferaio cui unica dote è la fotogenia, un heart robber destinato a fare la fine di Johnny Depp, interpreta Oliver, qui una giovane matricola approdata ad Oxford, presumibilmente per grazia divina, nell’anno 2006. Un po’ per nostalgia dei suoi anni migliori, un po’ forse perché davvero Fennell ha battuto la testa e di conseguenza è rimasta indelebilmente marchiata dall’estetica produttiva delle commedie college-based degli anni Duemila, i primi venti-trenta minuti del film si esplicano un po’ come qualsiasi odissea statunitense dove il protagonista è comune, non sa né di carne né di pesce, ma è estremamente intelligente e sensibile e, come tutti coloro che ogni tanto esitano, individuando la scorrettezza sociale e giostrando un paio di massime etnografiche, vuole scalare le vette della società. 

Barry Keoghan in “Saltburn” di Emerald Fennell (Credits: Amazon MGM).

Oliver incontra Felix, interpretato da Jacob Elordi, che è la versione autorizzata per i paesi scandinavi di Timothée Chalamet. Felix, per economia binaria, è ovviamente tutto ciò che Oliver non può essere: altissimo, purissimo, levissimo. E, non meno importante, ricchissimo. Basta una ruota bucata, e una gentilezza, che Oliver conquista la fiducia eterna del giovane tenebroso (com’è facile rendere felici i ricchi!). Un anno accademico passa, e Oliver salta dalla galleria alla platea, dimenticandosi i suoi amici nerd sfigati e facendo breccia nel cuore dei membri della piccola aristocrazia fondiaria che regge Oxford; e, grazie ad una struggente confessione di un’infanzia negata da un padre morto per overdose e una madre tossicodipendente, riesce a guadagnarsi un soggiorno estivo a Saltburn, la residenza estiva di Felix.

Alison Oliver in “Saltburn” di Emerald Fennell (Credits: Amazon MGM).

È un sogno, e Oliver lo vive ad occhi aperti. Ma non gli basta la prima fila, lui vuole essere dietro le quinte, firmarne la regia. Amato, corteggiato, compreso e coccolato da tutti, servitù inclusa, perché si sa, ai ricchi piace fare la beneficienza (soprattutto quella morale), Oliver, nell’ora e mezza restante del film, diventa il primo in lizza per l’eredità dell nobile famiglia Catton, lungo una parabola così banale che il plot di Ocean Eleven sembra The Handmaiden al confronto. Salvo qualche battuta salata e immagini visivamente piacevoli (non dimentichiamoci, dopotutto, che anche Fennell ci è andata ad Oxford, ma ci ha studiato recitazione, non semiotica), il film ci si srotola davanti come il classico metro da sarta, solo che noi vediamo il lato dei pollici, non dei centimetri. Forse altro risultato di taglia e cuci del revisionismo post-produttivo delle majors (distribuito da Amazon negli USA, e da Warner Bros. nel resto del mondo), Saltburn finisce per soddisfare solo chi di Promising Young Woman ha apprezzato giusto l’iconoclastia del maschile, e ovviamente riesce ad eccitare tutti i giovani (e non) accecati dalla bellezza del somaro di Euphoria

“Saltburn” di Emerald Fennell (Credits: Amazon MGM).

È un peccato, perché il cast è comunque fenomenale: Rosamund Pike interpreta la madre di Felix, un personaggio che straordinariamente mi somiglia molto; un fantastico Paul Rhys interpreta un maggiordomo comicamente indisponente; Carey Mulligan, in un breve cameo, dà vita ad una colorata e disperata zitella. Queste interpretazioni, magnifiche, risultano fuori luogo per una storia che sostanzialmente non racconta nulla di nuovo, e l’utilizzo della musica non è pungente come nel film che ha fatto guadagnare a Fennell un Oscar per la migliore sceneggiatura originale (Paris Hilton prima e va benissimo, Sophie Ellis Baxtor ora, e vabbè: scommettiamo che nel prossimo film ci infila un brano di P!nk?). 

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Rosamund Pike in “Saltburn” di Emerald Fennell (Credits: Amazon MGM).

Saltburn dovrebbe essere, così come ce lo hanno premesso, “A beautifully wicked tale of privilege and desire”: commedia nera, thriller psicologico, dramma post-vittoriano. Hanno davvero provato a vendercelo in tutte le salse. Quello che Fennell aspirava a raccontare, forse, è l’abissale divario tra possibilità e desiderio della classe media nell’era post-ideologica di un’Europa alle prese con l’aggressiva globalizzazione dell’immaginario e dell’economia. Voleva raccontarlo, magari, utilizzando un personaggio enigmatico, un satiro dalle sembianze centaurine, un tipo di fisicità che del proprio corpo, proprio come la classe media, ne ha fatto un cavallo di battaglia. Ossessioni lussuose, lussurie fluidificanti, congiure a nome del queer-baiting e forme di prostituzione pansessuale, falciate da lunghi pranzi balzachiani non creano un ritmo che possa scandire per bene i movimenti e le pause di un piccolo uomo dalle pretese napoleoniche: rimangono come chicche di un pastiche troppo ermetico; un po’ come i tondi di della Robbia, queste scene sono polpettine succose sì, ma in uno sformato insipido, diamantini di poco conto su un filo di qualità ancor più scadente. 

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Jacob Elordi in “Saltburn” di Emerald Fennell (Credits: Amazon MGM).

Natalia Ginzburg racconta di come, da piccola, desiderasse essere un re bambino. E nonostante ne avesse le possibilità, di vivere come tale, almeno un paio di illuminanti osservazioni etico-morali è riuscita a darcele. Di letteratura che parlasse della vacuità del desiderio di conquistare tutto ciò che è programmatica estetica dell’aristocrazia, il nostro mondo è pieno, e forse anche d’Annunzio, che ho sempre detestato, mi appare per lo meno più studiato di questo pastrocchio barocco. Detto ciò, Emerald, carissima, anche noi vorremmo essere dei re bambini, soprattutto noi poveri dotati di un modesto accesso alla cultura e di una televisione. Eppure c’è modo, e non modo. Tu, ad esempio, non ne hai avuto.

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“Saltburn” di Emerald Fennell (Credits: Amazon MGM).

Di tutte le cose belle di cui potevi rendere conto, alla luce di un’epoca dove i disoccupati comprano telefoni a rate e gli spazzini chiedono prestiti alle banche per farsi una settimana a Ibiza, dove i poveri vanno dal parrucchiere due volte a settimana e i ricchi non si lavano più i capelli, hai deciso (o chi per tu) che fosse più importante farci vedere i genitali di un ragazzino con il fisico da culturista e la faccia da vecchio, mentre balla Murder on the Dancefloor. È questo, a tuo avviso, il lascito della creolizzazione culturale? Oppure volevi semplicemente divertirti? Più che di sale, a me questa scottatura sa di bruciato.

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