di virginia
“Jill, Uncredited” e “Mast-del” sono due dei cortometraggi presentati all’interno del concorso ufficiale della XVI edizione di Archivio Aperto, festival dedicato al found footage e al riuso di pellicole d’archivio. Entrambi i lavori si incentrano, pur con modalità e tecniche diverse, sul potere delle immagini in movimento e sul recupero del patrimonio audiovisivo, capace di evocare sensazioni che non restano confinate entro lo schermo e il supporto su cui viene proiettato.
“Jill, Uncredited” (2022) di Anthony Ing
Jill, Uncredited («Jill, non accreditata»), già presentato allo scorso Festival di Berlino all’interno della sezione Berlinale Shorts, è, apparentemente, un montaggio di clip dalla breve durata. Ben presto ci accorgiamo, però, che tutte queste clip che sono state montate nel cortometraggio finale, dalla durata totale di circa venti minuti, hanno qualcosa in comune, un filo rosso che le collega tutte. Si tratta di un volto che quasi sempre compare sullo sfondo di film o di serie televisive – in generale, di prodotti audiovisivi. A prima vista, da alcune inquadrature, non è facile distinguere la fisionomia di quella che, pochi istanti dopo, i titoli di coda essenziali ci diranno essere Jill, attrice che nella sua lunghissima carriera ha svolto principalmente la parte della comparsa. Jill è uncredited, cioè non accreditata, il suo nome non compare quindi nei titoli di coda – prassi comune, fino a qualche decennio fa, per chi svolgeva ruoli considerati minori. Quando non è chiaro chi sia Jill tra tutte le persone che si vedono sullo schermo, il regista Anthony Ing, con l’aiuto di alcuni fermo immagine, indirizza lo sguardo dello spettatore e aiuta a distinguere Jill tra la folla.
Con una tecnica narrativa essenziale, che consiste nell’accostamento di veri e propri “ritagli” di video, il cortometraggio rende protagonista qualcuno che protagonista non è mai stato, ribaltando così la prospettiva e il ruolo ricoperto dalle comparse e dagli attori principali (il pubblico non mancherà di riconoscere anche alcuni volti molto noti del cinema hollywoodiano). Senza alcuna didascalia o forma di dialogo – solo alla fine, prima dei titoli di coda, verranno forniti alcuni dettagli – il messaggio è veicolato dalle immagini in movimento, accompagnate da una colonna sonora strumentale. Il titolo del corto è programmatico e proclama l’esatto contrario di quello che il regista si propone di fare: Jill, dopo tutti questi anni senza ricevere una menzione, è finalmente accreditata; il suo nome è l’unico a figurare tra il cast del cortometraggio e il suo volto è l’unico su cui viene rivolta l’attenzione del pubblico. Il corto rende omaggio a tutte quelle persone che, come Jill, non hanno mai visto il proprio lavoro riconosciuto; non solo scopriamo il nome reale dell’attrice, Jill Goldston, nel momento in cui scorrono i titoli di coda ma anche che tutto il materiale reperito per la realizzazione del cortometraggio non costituisce che il 5% del lavoro totale realizzato dall’attrice.
“Mast-del” (2023) di Maryam Tafakory
Il potere evocativo delle immagini è al centro di un altro cortometraggio presentato in concorso ufficiale. Mast-del di Maryam Tafakory è un racconto frammentato, dove viene lasciato spazio all’immagine e all’immaginazione e dove le parole,sono perfettamente misurate e bilanciate. In una sequenza onirica di riprese elaborate sullo schermo in negativo, viene raccontata la storia di un ricordo, che potrebbe essere un sogno, che potrebbe essere stata una breve allucinazione o una chimera. Mentre le immagini scorrono sullo sfondo delle parole che vengono scambiate tra due donne – mai pronunciate ma solo riportate sottoforma di testo, in brevi e brevissimi frammenti che danno un ritmo poetico alla narrazione – lo spettatore si ritrova catapultato in una dimensione a metà tra il sogno e la realtà, in uno spazio di passaggio viene definito «non un sogno, ma neanche un incubo».
Il cortometraggio sperimentale di Tafakory, pur presentando una sua linearità nell’esposizione, si serve di suggestioni e impressioni fugaci per allontanare gli occhi di chi guarda dalla realtà di tutti i giorni; i colori “invertiti”, un rumore costante in sottofondo e lo scorrere delle parole, che occupano non casualmente uno spazio centrale sullo schermo, unite alle transizioni tra una sequenza e quella successiva, diventano parte integrante della struttura narrativa. L’immagine, in questo caso, non è preponderante rispetto alla storia che viene raccontata, né serve per sostituire o per assumere la funzione di mezzo comunicativo; come in un sogno i contorni delle cose e delle persone sono sempre sfumati, allo stesso modo qui viene ripresa quella nebbia che circonda i ricordi più profondi attraverso immagini non sempre chiare e nitide. Le informazioni vengono trasmesse a poco a poco, in modo distillato, ricalcando la modalità in cui i ricordi riaffiorano alla mente della protagonista, che rievoca e racconta di un giorno ormai lontano della sua vita.