di giulia
Per due decenni, i cinefili di New York hanno avuto accesso a un tesoro di film rari attraverso Kim’s Video. Gestito originariamente dall’enigmatico Yongman Kim nella sua attività di lavaggio a secco, il franchising alla fine ha accumulato 55.000 titoli di noleggio. Nel 2008, di fronte a un settore in evoluzione, il signor Kim si è offerto di regalare la sua collezione, a condizione che rimanesse intatta e disponibile per i membri di Kim’s Video. Nel tentativo di rivitalizzare il turismo, il piccolo villaggio italiano di Salemi, in Sicilia, è diventato la sede dell’archivio. Però, dopo che la pubblicità iniziale è svanita, è sparito anche ogni segno della collezione.

Dopo aver letto la sinossi del documentario, in concorso alla XVI edizione del festival Archivio Aperto, quello che a grandi line mi aspettavo era un lavoro fondato sull’importanza dei mezzi fisici e la nostalgia per una modalità di consumo del cinema che è ormai quasi del tutto scomparsa. Kim’s Video, realizzato da David Redmon e Ashley Sabin, prende però una piega diversa quando l’amore e l’interesse per la storica collezione di cassette di Mr. Kim arriva a essere per i registi una vera e propria ossessione (in particolare Redmon, voce narrante del film). Bastano i primi dieci minuti di visione a farci capire che Redmon ci tiene molto a ricordarci che lui di film ne ha visti, moltissimi, citando decine di cult e facendo – costantemente – riferimenti eccessivamente specifici, con lo scopo di raccontarci la sua vita personale: “sono nato vicino a dove è ambientato Paris, Texas e da sempre fatico a distinguere la finzione dalla realtà”. Non preoccuparti David, ce ne siamo accorti in fretta.

L’ossessione inizia anni dopo che Mr. Kim, arrendendosi all’imminente era digitale, decide di donare la sua inestimabile proprietà a chi avrebbe fatto a suo avviso la migliore proposta, per dare così nuova vita alla collezione. Grazie al materiale d’archivio recuperato dal regista vediamo una clip di Yongman Kim che parla delle numerose istituzioni e università di New York che si sono fatte avanti per accogliere i DVDs. Tuttavia, senza che nessuno ne abbia mai capito chiaramente il motivo, il proprietario decise alla fine di spedire la totalità della sua raccolta a Salemi, una cittadina di circa novemila abitanti situata in Sicilia. Invece di concentrarsi sul significato di una scelta di questo peso, sui cambiamenti che i nuovi media hanno portato nella fruizione della settima arte e le conseguenze del caso, il regista si autoproclama investigatore segreto e decide di andare a scoprire cosa sia realmente accaduto all’eredità di Mr. Kim, giustificando incessantemente ogni sua azione grazie a un paragone portato avanti tra se stesso e il protagonista di Videodrome (affermando di sentirsi letteralmente “chiamare” dalle cassette oltreoceano).

Sono molti gli ex-membri, ex-impiegati, appassionati di cinema e fan storici di Kim’s Video che vengono intervistati per il documentario, pochissimi però menzioneranno Salemi e la sparizione di Kim dalla scena newyorkese. Tanti parleranno di quanto importante è stata per loro la possibilità di accedere a film così rari come quelli presenti sugli scaffali di Kim’s Video e del peso che la fruizione di un patrimonio del genere aveva sulla comunità; tuttavia, è ben chiaro come queste non fossero le risposte che i registi speravano di ottenere ai fini della loro ricerca, così Redmon e Sabin partono per l’Italia. La voce narrante ci parla di Salemi, ci racconta del terremoto del 1968 che distrusse l’intera città e di come decenni dopo il suo nuovo sindaco, Vittorio Sgarbi, puntò anche su questo aspetto per promuovere l’arrivo delle cassette di Mr. Kim come parte di un ambizioso progetto multimilionario di ristrutturazione, per trasformare Salemi in un’innovativa colonia artistica.

Come forse alcuni di voi sapranno, questo progetto di Sgarbi mai andò in porto e le promesse svanirono nell’aria. Non nascondo l’imbarazzo provato guardando le numerose riprese fatte da Redmon a Sgarbi mentre lo inseguiva alla ricerca di risposte, ricevendo in cambio solo la più totale indifferenza. Semplicemente possedere la collezione per lui era più importante che conservarla e renderla accessibile, perché significava avere l’opportunità di sfruttare il denaro per altri fini. Inutile dire che, per l’ennesima volta, l’immagine che questo documentario lascia del nostro paese è alquanto tragica. Quando Redmon arriva finalmente alla sede del “centro Kim” – dico finalmente perché il nostro regista non aveva forse messo in conto quando difficile è farsi capire quando nell’intera città nessuno parla la tua lingua –, scopre la verità irrompendo all’interno del palazzo dove si trovano le cassette. Entra da una porta lasciata aperta, senza il permesso della persona che, teoricamente, ne è responsabile (poichè tale Enrico non è in alcun modo rintracciabile).

Trova così i film ammassati in un edificio umido e ammuffito, tutti contaminati da anni di abbandono. A questo punto, Redmond si fa paladino della situazione, promettendosi di trovare i responsabili, “liberare” la collezione e riportare il tutto ai legittimi proprietari: Mr. Kim e gli abbonati newyorkesi di Kim’s Video. Quello che ne esce è il tentativo di trasformare il documentario in un avvincente film d’investigazione, pronto a rivelare i segreti delle politiche culturali italiane, finendo però per rimanere annodato in una complicata storia di corruzione e macchinose politiche locali, che i nostri registi americani proprio non riescono a comprendere. Ne consegue una narrazione caotica e fin troppo incentrata sulla personale conoscenza del regista dei film più di nicchia, piuttosto che sul reale interesse nel recupero di quello che di fatto è un patrimonio culturale e della sua fruizione al mondo.

Sono nata nell’epoca e nel continente sbagliato per percepire la storia di Kim’s Video come qualcosa che mi riguarda sul piano personale, nonostante questo ho conosciuto l’importanza dell’analogico, dei mezzi fisici e del materiale d’archivio. Per questo ammiro le intenzioni dei registi nel raccontare una storia di questo calibro e la determinatezza messa nella volontà di riportare la collezione al pubblico (riuscendoci); questo non toglie che, arrivata alla fine del documentario, rimango col desiderio di sapere di più sulla storia di questi film e sulla memoria collettiva alla quale essi hanno dato vita.
“Cinema is a record of existence. It retains traces of lives lived, of phantoms, ghosts, and when it is thoughtfully organized as an archive, it’s our collective memory of the living dead.”