di virginia
In occasione della 18° Festa del Cinema di Roma, i registi Lisandro Alonso e Matteo Rigo de Righi si sono confrontati in un dialogo aperto al pubblico, all’interno della sezione Paso Doble, inaugurata dal Festival. Il regista argentino, il cui ultimo film, Eureka, è stato presentato durante la rassegna – dopo una presentazione alla scorsa edizione del Festival di Cannes – ha raccontato la realizzazione del progetto, che vede come protagonisti Chiara Mastroianni e Viggo Mortensen. L’incontro è stato moderato da Nico Marzano, curatore della Festa del Cinema di Roma.
Cosa ti ha portato alla realizzazione di Eureka? Come è nata l’idea?
Alonso: «Prima di questo film avevo fatto Jauja, dove venivano introdotti due personaggi nativi ma non ho avuto né il tempo, né abbastanza spirito creativo per raccontare storie che coinvolgessero direttamente anche loro. Per il progetto successivo a questo mi sono messo a pensare a come proseguire la storia riprendendoli, ho pensato a che cosa avevo messo in scena e che cosa mancava, allora mi è venuto in mente il genere del western americano, il genere cinematografico per eccellenza che tratta di queste tematiche».
Anche Re Granchio abbraccia il western in qualche modo.
Rigo de Righi: «Quando ho iniziato a lavorare con Matteo [Zoppis, co-regista di Re Granchio, ndr] al nostro primo documentario, Belva nera, siamo partiti con lo stesso spirito di fare film da soli, ci trovavamo in Argentina e avevamo per le mani una macchina 16mm. Riflettevo sull’idea dell’osservazione, che è una cosa che ci ha sempre colpito dei film di Lisandro, cioè fa scoprire i personaggi attraverso il tempo e attraverso la condivisione. Con Matteo abbiamo impostato il discorso su un gruppo di cacciatori e l’idea del western è sempre stata presente nei nostri film, ma semplicemente, fino a quel momento, non avevamo abbastanza risorse per realizzarne uno. Il western ha pervaso da sempre tutto il nostro immaginario collettivo».
C’è un’esplorazione del western – seppur rivisitato – in Jauja, dove lavori con attori professionisti e non; anche in Eureka riproponi un segmento western. Nei tuoi film anche il paesaggio ha una rilevanza molto importante: perchè dall’Argentina arrivi al Sud Dakota? Il tuo è un cinema di libertà e di intuito: anche se le decisioni prese a monte spesso vengono stravolte nella pratica, quali sono stati, in particolare, i momenti ispiratori durante la stesura del progetto?
Alonso: «Sono riuscito a ottenere una borsa di studio a Boston, dalla durata durata di sei mesi. Durante questo periodo ho viaggiato molto con la mia famiglia e volevo capire come viveva la comunità di nativi americani al giorno d’oggi. Così ho chiesto a Viggo Mortensen se conoscesse qualcuno e lui immediatamente mi ha messo in contatto con una famiglia del Sud Dakota, dove vive una delle più grandi comunità di nativi americani, per approfondire questa mia curiosità. Il paesaggio è per me un personaggio fondamentale, protagonista, nelle riserve si vede solo disperazione, marginalizzazione, dolore e sofferenza e mi interessava mostrare questo, over un aspetto che non si vede in nessuna pellicola statunitense dagli anni Settanta in poi. In qualche modo mi sono accorto (e continuo a pensarlo) che spesso non capisco immediatamente perchè ho voluto girare questo film e raccontare questa storia, spesso me ne accorgo dopo aver concluso un lavoro. Riguardo la scelta del genere, del western, c’è però da dire che sta tornando di moda; giusto per fare due nomi famosi, recentemente è tornato alla ribalta con Pedro Almodóvar e Martin Scorsese recentemente, ma già dai tempi Brokeback Mountain (2005) se ne parlava. Addirittura lo stesso Viggo Mortensen ha da poco girato un western femminista insieme a Vicky Krieps. Oggi ci avviciniamo al genere western in modo più autentico e spontaneo: è il genere americano per eccellenza, ma porta anche lo spettatore a chiedere se sia rappresentativo e se, effettivamente, mi fa sentire parte di quello che vede sullo schermo».
Spesso anche nel tuo cinema, Alessio, il paesaggio è sotto minaccia e può assumere connotazioni politiche.
Rigo de Righi: «In Re granchio, avevo pensato insieme a Matteo di rendere il paesaggio un elemento fondamentale nella costruzione dei racconti. Ci è sempre servito a raccontare quei personaggi che non c’erano, che non si vedevano, e così è finito per diventare un personaggio aggiuntivo, uno in più all’interno della storia. Abbiamo immaginato il paesaggio come contrappunto tra un’immagine e l’altra; il primo capitolo, la cui ambientazione è in Italia, è più claustrofobico, mentre la seconda parte propone un paesaggio immenso, aperto e più caratteristico della Terra del Fuoco, dell’Argentina e della Patagonia. Questo cambiamento riflette anche la crescita del personaggio protagonista, che nella prima parte della storia si sente chiuso in sé stesso mentre nella seconda è sperduto e si ritrova solo in mezzo a questo paesaggio argentino. Trovo molto interessante il discorso sui film di Lisandro perchè – almeno per quanto mi riguarda – aver visto i suoi film prima di trasferirmi in Argentina mi ha fatto capire come fosse possibile raccontare una storia in quel modo, con quella libertà. Credo di condividerlo con Matteo questo sentimento e questa spinta verso la libertà, è qualcosa che ci ha accompagnato sin dal primo film».
Come è cambiato il tuo modo di girare film nel corso del tempo?
Alonso: «Ho realizzato pochi film fino a ora; proprio quando ho voluto crescere come regista, ho iniziato a girarne meno: in dieci anni ho fatto solo due film! Sappiamo bene quanto tempo richieda preparare e girare un film, e a tal proposito mi piacerebbe tornare indietro di vent’anni e girare allo stesso modo in cui ho fatto per le mie prime quattro pellicole. L’ultima esperienza, in particolare, è stata molto problematica: avevamo una coproduzione di cinque paesi con tanti produttori ma, alla fine dei conti, nessun socio. Quello che mi interessa, almeno nelle prime pellicole che ho realizzato, è di non mostrare un lato romantico della natura: il paesaggio è un luogo in cui devono combattere minuto per minuto tutti i protagonisti. È lo scenario dove bisogna lottare, e quello che spinge a uscire dalla zona di comfort».
Lisandro, hai lavorato spesso con attori non professionisti nei primi quattro film, poi con attori professionisti. Cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto questa esperienza?
Alonso: «Ho sempre trattato tutti gli attori allo stesso modo; sia che fosse Misael, la cui prima pellicola che abbia mai visto in vita sua era quella in cui lei era protagonista, sia che fosse Viggo Mortensen. Se devo essere sincero fino in fondo, non mi sono mai sentito in grado di dirigere un attore come Mortensen, del resto che cosa posso dirgli? Come posso migliorare il suo modo di recitare? Ho molta fiducia nel progetto e inserire un attore nominato tre volte agli Oscar in un film il cui finale si scopre solo facendolo è stato qualcosa di incredibile. Questo dimostra che non esiste una formula per un film perfetto, quello che funziona con uno potrebbe non funzionare con un altro film. Quando ho concluso la quarta pellicola, Liverpool, ho sentito che il mio modo di girare si stava trasformando in una formula, mi sono accorto di aver realizzato quattro film uguali e questo meccanismo mi aveva annoiato profondamente. Ho accettato la sfida di fare qualcosa di nuovo, ho dovuto convincere Viggo Mortensen a girare insieme, ero innamorato della sua persona e non dell’attore — anche se a lui sono serviti un po’ più di giorni per innamorarsi di me! Avevo la curiosità di scoprire che cosa avrei potuto fare con questa persona, ovviamente Viggo avrebbe attratto un pubblico maggiore per i miei film, anche se questi non sono così popolari nel pubblico – ma questo è un lato del mio lavoro che non mi disturba. Mi piace vedere le reazioni, girare per i festival e scoprire cosa ne pensa il pubblico».
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