di virginia
Saltburn arriva in Italia in anteprima con la Festa del Cinema di Roma, con una premiére silenziosa e senza la presenza di cast e regista. Poco importa, non è stato il luccichio dello stardom (o forse sì, ma in modo indiretto) ad aver riempito lo spettacolo della sera in sala Sinopoli, ma tutto l’hype che nel corso di – relativamente – pochi mesi si è costruito intorno al cinema. Emerald Fennell, dopo il fortunato Promising Young Woman, torna dietro alla macchina da presa per raccontare una storia in cui si uniscono questioni di classe, intrighi di potere e violenza. Saltburn non è solo il titolo del film; o meglio, è il nome della dimora dove vive una facoltosa e aristocratica famiglia britannica a dare il nome all’intera pellicola, quella dei Catton, il cui nucleo famigliare è composto da quattro membri: Elspeth (Rosamund Pike), Sir James (Richard E. Grant) e i rispettivi figli, Venetia (Alison Oliver) e Felix (Jacob Elordi).
Protagonista della storia è il giovane Oliver Quick (Barry Keoghan) e lo si vede in procinto di avviare la propria carriera accademica in una delle più prestigiose università del mondo, Oxford. Nel caso non si fosse notato dall’abbigliamento degli astanti e dei personaggi che sporadicamente interagiscono con lui nella sequenza iniziale della pellicola – cioè tute firmate Juicy Couture e maglioncini Ralph Lauren con scollo a V – l’ambientazione è nei primi anni duemila, precisamente nel 2006, come sottolinea il cartellone di benvenuto alle matricole per il nuovo anno accademico. Dopo un breve riassunto di quello che lo spettatore dovrebbe aspettarsi, narrato a posteriori da un Oliver molto più maturo di quello che conosciamo, il film si apre con un lungo piano sequenza, con cui seguiamo il percorso del protagonista dal momento in cui arriva all’università fino a che non si sistema in camera. Oliver, in modo lampante, non ha niente a che fare con l’ambiente in cui si ritrova: le uniche interazioni che ha con gli altri studenti universitari sono per rispondere a una presa in giro, ha l’aria persa e continuamente si guarda attorno con circospezione; tuttavia riesce a muoversi con disinvoltura, senza mai fermarsi, districandosi in questo labirinto composto da arroganti figli aristocratici o provenienti da famiglie benestanti – almeno all’apparenza.
Oliver si distingue chiaramente dal resto delle persone che lo circondano: è solo, è perso e indossa abiti troppo formali e fuori contesto, porta una montatura di occhiali da vista un po’ troppo datata e seria per la sua età. Fennell gioca molto con gli stereotipi e con le parodie che nei film dei primi anni duemila venivano propinati e, oltre alle apparenze e all’abbigliamento, ritorneranno in vari punti del cinema tutti i clichés delle commedie adolescenziali con cui larga fetta del pubblico è cresciuta – e può, quindi, riconoscere. Oliver ha difficoltà a entrare effettivamente in questo mondo e se potevano esserci dubbi da parte dello spettatore, questi vengono confermati nel momento in cui si ritrova a cenare da solo (ma su come Mean Girls sia stato determinante nelle scene dei pranzi all’interno delle mense scolastiche servirebbe un approfondimento a parte). L’unico personaggio che sembra voler trascorrere del tempo con il protagonista della storia è il classico personaggio-macchietta che costella tutte quelle commedie a cui siamo stati abituati, ovvero il secchione troppo e intelligente e assorto nei suoi studi per poter creare legami di amicizia.
Se Oliver riesce a nascondersi bene tra la folla, in modo anonimo, per la sua personalità introversa e solitaria, in modo opposto e speculare vediamo continuamente emergere Felix, che in un primo momento può essere considerato il bello della scuola, ma che presto si rivelerà una figura-chiave per la vita del protagonista. Felix è costantemente circondato da ragazze e ragazzi, è l’anima della festa, sembra divertirsi con chiunque, ruba le fidanzate agli amici solo per scommessa: ogni volta è un successo. Felix e Oliver si incontrano per caso, per un incidente, da lì inizieranno a sviluppare una forte amicizia che porterà Oliver a trascorrere l’estate intera presso la villa? castello? residenza signorile? della famiglia di Felix, che prende l’iniziativa di invitare l’amico dopo aver scoperto la turbolenta situazione a casa di Oliver, dato che gli è stato raccontato di una madre tossicodipendente e un padre ubriacone appena deceduto in seguito a un incidente stradale. Tra i due si sviluppa quindi un profondo legame di amicizia e Oliver inizia a conoscere la stravagante famiglia che compone la residenza Catton; ben presto con ognuno di loro costruisce un rapporto personale e particolare, basato su menzogne e omissioni, che fa capire come l’obiettivo finale del protagonista, forse, non sia trascorrere le vacanze in un luogo idilliaco con un caro amico.
Se, fino a quando i due si trovavano all’università, la narrazione seguiva più l’andamento di un film coming of age, nel momento in cui il centro della storia si sposta a casa Catton, il ritmo rallenta e si avvicina sempre di più al thriller, senza però mai sconfinare in questo particolare genere. Per come ci viene raccontata la storia di Oliver, ci troviamo davanti a una struttura narrativa che ha caratterizzato gran parte della letteratura ottocentesca, ovvero la parabola dello scalatore sociale, un personaggio senza scrupoli, dalla natura ambivalente e ambigua: guarda alla borghesia con disprezzo e odio, aspirando a entrare nei ranghi dell’aristocrazia, ma è comunque combattuto per non poter rinnegare fino in fondo la sua classe di provenienza, che in una certa misura gli apparterrà sempre. Nonostante ci sia un collegamento diretto con romanzi picareschi e non (e qui i riferimenti si sprecano, dal Bel-Ami di Guy de Maupassant al Barry Lyndon di William M. Thackeray), comunque la storia risulta particolarmente attuale – e questo è forse più un punto di merito a quegli scrittori che, quasi duecento anni fa, avevano già individuato i meccanismi di funzionamento della società capitalista in cui ci ritroviamo inseriti fino al collo. È chiaro che, da allora, siano cambiati i tempi, per cui Oliver non sta facendo tutta la sua arrampicata per un titolo aristocratico ma, più banalmente, per ottenere potere e soldi – caratteristica, insieme alle costanti bugie e al doppiogioco che sta portando avanti, che lo accomuna al personaggio di Mr. Ripley scritto da Patricia Highsmith.
I riferimenti espliciti, all’interno del film, alla letteratura ottocentesca – in particolare a quella anglosassone – si sprecano: Oliver paragona i Catton e la loro dimora alle storie che scriveva Evelyn Waugh, paragone che viene confermato da Felix quando afferma che lo scrittore di Brideshead Revisited si è, effettivamente, ispirato ai suoi antenati per la stesura dei propri racconti; in diversi punti vengono menzionati alcuni poeti romantici, in uno scambio di battute pieno di equivoci si parla di Shelley. Lo stesso nome del protagonista, Oliver, è un rimando a quell’Oliver Twist di Dickens che aveva dato una svolta (scusate il bisticcio, ma un letterale twist) alla propria vita in modo fortunato e inaspettato; il nostro Oliver, però, fa di cognome Quick, cioè “veloce, svelto”, riferimento alla velocità d’esecuzione con cui riesce a percorrere questa scala verso la ricchezza, senza ripensamenti e senza porsi questioni o dubbi etici. Oliver ben presto inizia a sdoppiare la propria personalità – e sì, ancora una volta possiamo dire come si sdoppiava il Dr. Jekyll di Stevenson -, costruendo interamente un personaggio di facciata, cioè quello che tutti conoscono, e poi indossando ogni volta una maschera a seconda del contesto o della persona con cui sta interagendo. Lo sdoppiamento e il doppiogiochista del protagonista vengono prontamente rielaborati soprattutto a livello visivo: sono numerose le scene in cui Oliver si vede riflesso e quindi scisso e separato.
Se per due scene vediamo Oliver riflesso in due diverse superfici (una è il laghetto di casa Catton, nell’immagine che compone anche la locandina del film, l’altra è durante una cena formale sul tavolo della sala da pranzo), alla fine, dopo che ha portato avanti tutte le sue trame contro la famiglia che lo ha ospitato, si perde in un riflesso infinito di tre specchi: neanche Oliver sa più a che gioco sta giocando e, dopo che Felix ha scoperto tutte le bugie accuratamente costruite, il suo piano è crollato. L’aspetto scenografico è curato nei minimi dettagli per riflettere gli stati d’animo del protagonista o degli altri personaggi coinvolti: dall’atmosfera incantata e irreale delle giornate trascorse a Oxford, quando Oliver e Felix si ubriacavano sui tetti della cittadina inglese con lo sfondo di un cielo sulle tonalità del rosa e del viola, si passa a tonalità decisamente più cupe e buie man mano che la storia procede, parallelamente alla crudeltà di Oliver che cresce a dismisura fino a che non arriva a un punto di non ritorno.
Nonostante i costanti riferimenti ai primi anni duemila (tra i vari, in una scena alcuni personaggi stanno appassionatamente guardando alla tv Superbad), comunque Fennell decide di abbandonare l’estetica luccicante che caratterizzava quel particolare genere di film – anche se non mancano recenti pellicole che, al contrario, hanno scelto di ricalcare proprio i colori esagerati e saturati di quelle commedie, uno fra tutti Bottoms. Anzi, l’impopolare formato in 4:3 (che sta, però, prepotentemente facendo ritorno sui nostri schermi) e la scelta di girare in pellicola con la fotografia romantica e sognante di Linus Sandgren donano una certa patina “antica” alla storia, come antica è la famiglia aristocratica da cui proviene Felix e come antichi sono tutti i luoghi in cui la narrazione si svolge – tra i palazzi storici dei colleges di Oxford e la villa signorile dei Catton. Non ci sono speranze di redenzione per nessuno dei personaggi coinvolti, nonostante la spiccata cattiveria del protagonista: ognuno, a modo proprio, è coinvolto in una spirale di potere e avidità e nessuno riesce a uscirne in modo incolume.