di virginia
L’ultima fatica cinematografica di Héléna Klotz, Spirit of Ecstasy (La Vénus d’Argent), è stata presentata in anteprima in occasione della 23° edizione del Toronto International Film Festival. Il film, che vede come protagonista Claire Pommet, meglio conosciuta come Pomme, racconta la storia di Jeanne, giovane protagonista non-binary – o come il personaggio stesso si definisce – “neutro”, che fatica a trovare la sua dimensione nel mondo, soprattutto in ambito lavorativo. Jeanne (che porta lo stesso taglio di capelli della sua altra illustre e famosa omonima) intende lavorare nel mondo della finanza, perchè, apparentemente, è solo con i numeri e le cifre che sembra sentirsi a proprio agio. Jeanne cresce in ambiente militare: il padre è un soldato e tutte le scuole che il personaggio principale ha frequentato nella sua vita erano scuole militari; ma questa carriera non è quella che intende percorrere, per cui, nonostante le battute e le prese in giro da parte della famiglia, quando la vedono indossare abiti ingessati, prosegue per la sua strada.
Per tutta la durata della pellicola vediamo Jeanne sentirsi continuamente fuori luogo o inadeguata: in un mondo di uomini – come le numerose sequenze che la ritraggono sempre lontana dai colleghi non mancano di sottolineare – rimane sempre in disparte; i vestiti che indossa sono sempre troppo larghi per il suo fisico e tutte le persone che incontra non mancano di sottolinearlo. Anche a casa, in quello che dovrebbe essere un porto sicuro, il padre non comprende il motivo di tanta ambizione e voglia di lavorare in un mondo difficile come quello dell’economia e dell’alta finanza. Jeanne intraprende questo percorso da sola: non ha amici e, sempre da sola, si sposta con la propria moto per le vie della capitale francese, come la sequenza iniziale, reminiscente di Cario Diario, mostra allo spettatore.
Per tutta la prima metà della pellicola viene da chiedersi all’interno di quale genere cinematografico vada inserito Spirit of Ecstasy ma la risposta non arriva mai. Per quanto ci provi, non riesce a mantenere un ritmo pressante come ci potremmo aspettare da un thriller e, al tempo stesso, tutti gli elementi che rimandano al dramma, in particolare al dramma familiare, rimangono abbozzati e sospesi per poter, effettivamente far sì che il film possa essere ascritto in questa categoria. Le poche scene che ritraggono Jeanne fuori dal lavoro, con i suoi familiari o con Augustin (Niels Schneider), cioè quella che si intuisce essere una sua passata frequentazione, mostrano uno squarcio molto superficiale di quella che è la vita del personaggio protagonista, per di più senza mai fornire contesto o informazioni aggiuntive sul suo passato, ma solo vaghi riferimenti. I personaggi, protagonista compresa (pur molto brava nella recitazione, dato che si tratta dell’esordio sul grande schermo), mancano di profondità e di spessore: di nessuno si conosce la storia e non viene mai data una spiegazione – anche implicita – dei loro comportamenti. Non viene mai chiarito il passato di Jeanne e neanche perchè a inizio pellicola accusi Augustin di essere stato violento nei suoi confronti, salvo ritornare insieme entro la fine della storia, dopo un breve discorso in cui i due “chiariscono” i propri sentimenti l’uno nei confronti dell’altro.
Jeanne parla poco, anzi, quasi per niente; in compenso, il suo datore di lavoro (interpretato da Sofiane Zermani), non smette di dare aria alla bocca in tutte le scene in cui è presente. Se, da una parte, è evidente che con il suo modo di parlare, quasi sempre per frasi fatte e afferenti al mondo dell’economia, del successo, del self-made man e quant’altro, la regista voglia ironizzare e fare una parodia di questo ambiente dai tratti molto tossici, dall’altra il susseguirsi di formule e modi di dire, alla lunga, risulta stucchevole. ll colpo di scena, che arriva con qualche indizio, dovrebbe riportare la protagonista con i piedi per terra perchè comunque fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, salvo poi, entro la fine del film, riportare tutto a uno stato iniziale, con Jeanne che riprova, nonostante le fregature e le delusioni, a rientrare nel mondo della finanza che tanto l’ha tormentata. Il finale è sbrigativo e lo è ancora di più la morale che trapela: nel momento in cui Jeanne riprova, in un colloquio, a ottenere un’alta posizione lavorativa all’interno di un’azienda di aiuti umanitari, vestita stavolta con i propri abiti e non l’«armatura da banchiere», come la definisce Augustin, allora riesce nei propri intenti e non solo: fa proprio colpo sul nuovo datore di lavoro (interpretato, con un breve cameo, da Mathieu Amalric). Insomma, un’ora e mezza per dire che bisogna essere sé stessi perchè everyone else is taken sembra un po’ eccessivo.