di virginia
Già dai tempi di Boris il grande pubblico italiano aveva iniziato a capire che forse, tutto sommato, il mondo dei set televisivi (o cinematografici) non fosse un’ambiente così tranquillo come ci si sarebbe potuti aspettare. Poi, sempre in Italia, è arrivata l’ultima commedia di Nanni Moretti a sottolineare, sempre con ironia e sarcasmo ed evidenziando le storture del sistema e le contraddizioni interne, quanto sia difficile realizzare una pellicola al giorno d’oggi. Da qualche giorno è sbarcato sul Lido di Venezia anche Cédric Kahn, che ha voluto contribuire alla discussione con la sua ultima fatica cinematografica (dal titolo già di per sé molto esplicativo), Making of; non apportando, però, alla pellicola un taglio comico ma piuttosto drammatico e riflessivo, inserendosi sulla scia già tracciata da François Truffaut con il suo Effetto Notte. La pellicola si incentra sulle difficoltà di realizzare, appunto, una pellicola: vengono raccontate le vicende di un regista (interpretato da Denis Podalydès) che si ritrova a dover sciogliere una serie di nodi e complicazioni durante le riprese del suo film.
Il film è costruito come un costante dialogo tra diverse forme di espressione artistica, caratteristica chiara fin dall’inizio, quando viene annunciato che la materia narrata subisce una divisione in atti – procedimento tipico del linguaggio teatrale. La storia, che si sviluppa come una scatola cinese, prevede una cornice in cui si seguono le vicende della produzione del film e, all’interno di questa cornice, troviamo un ulteriore piano narrativo, quello del making of, cioè del documentario del dietro le quinte che viene girato all’interno delle riprese. Per evidenziare questi due diversi piani narrativi, Kahn si serve del linguaggio tecnico e della grammatica visiva: la storia del film si sviluppa in 2:35 mentre il dietro le quinte in 4:3; mentre nel primo formato, più ampio, la macchina si muove liberamente per il set, osservando da vicino la situazione dei vari personaggi che popolano le riprese, il documentario riprende quasi sempre i protagonisti in camera fissa, come se la mano autoscale sparisse dietro la camera e quasi “si facesse da sé”.
Tra lo sguardo del regista che dirige il proprio film e lo sguardo del giovane operatore (Stefan Crepon) che realizza le riprese per il documentario del dietro le quinte si possono scorgere due diversi approcci al mondo del cinema, dati, tra le altre cose, anche da un notevole divario generazionale che porta i due personaggi a comportarsi e a lavorare sul set in modo diverso. Mentre il regista, che sta girando un film dalla forte sottotrama socialista e anticapitalista – incentrato su una fabbrica in cui i lavoratori decidono di scioperare per una miglior retribuzione del loro operato – appare come un uomo ormai disilluso dal grande sistema cinematografico e produttivo che progressivamente toglie libertà agli artisti, il giovane operatore è costantemente entusiasta di ciò che gli accade intorno nonostante la fatica che il ruolo assegnato gli richiede. La trama del film che viene girato diventa chiave di lettura di tutto Making of: se, da una parte, gli operai della fabbrica chiedono maggiore libertà – tanto da arrivare ad appendere uno striscione che recita «lavoratori liberi» fuori dalla fabbrica – dall’altra vediamo il protagonista litigare e discutere continuamente con i produttori del proprio film, che vogliono imporre un finale diverso (un tanto decantato “lieto fine”, di modo da infondere speranza e ottimismo nello spettatore) da quello inizialmente scritturato.
Il giovane operatore, che si avvicina al mondo del cinema con altre aspettative rispetto a ciò che, effettivamente, vede, si ritrova ben presto a riprendere situazioni scomode e surreali all’interno del set. Il mondo del cinema subito si rivela come un luogo crudele, dove sopra a ogni interesse e progetto artistico conta il ritorno economico. I produttori, in quanto finanziatori del film, si sentono liberi di minacciare di ritirare i fondi se il regista e gli sceneggiatori si ostinano a mantenere il finale scritturato e non quello da loro proposto; di notte l’operatrice di camera viene aggredita da tre uomini sconosciuti e senza motivo; gli attori – per quanto rappresentati in modo stereotipato – si configurano come divi isterici che vogliono dettare legge su come vengono, alla fine, mostrati sullo schermo.
Making of riflette sul ruolo dell’arte e del cinema nel mondo contemporaneo, con occhio critico e con una certa vis comica che scorre un po’ ai margini delle sequenze principali ma, alla fine, senza portare niente di nuovo alla discussione. Il mondo del cinema è un mondo in crisi e la crisi colpisce, prima di tutti, chi sta dietro ai film – giustamente Kahn sottolinea come un film non sia realizzato meramente da una regista e dagli attori, ma da tutto un apparato tecnico che spesso resta nell’ombra. Sì, d’accordo, siamo davanti a un bel film, in cui le prove attoriali vanno a coprire le battute un po’ troppo reiterate all’interno di uno screentime che, tutto sommato, poteva benissimo essere alleggerito e sfoltito, ma comunque difficile da dire per quanto resterà impresso dopo essere usciti dalla sala ed esserci commiserati per la triste situazione in cui il cinema attualmente versa.