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di benedetta

Quando Sofia Coppola ha diretto il suo primo film, Il giardino delle vergini suicide, aveva 28 anni. Lo stesso anno, io nascevo. Ecco perché avere trent’anni di differenza non conta nulla, quando si condivide il tormento di essere nate donne. La domanda che mi sono sempre fatta, attorno al personaggio di Sofia Coppola, deriva dalla sua posizione sociale. Per essere molto didascalici: una persona qualunque che intende fare cinema parte con molte idee ed una matita in mano, magari spuntata. Sofia Coppola, che voleva fare cinema (ed infatti lo fa), partiva con un’ottima macchina da presa, una sedia comoda con il suo nome cucito dietro, diverse persone attorno – tutte brave -, la matita ben appuntita e poi, sì, le idee. 

“Maria Antonietta” di Sofia Coppola (Credits: IMDb)

E’ più difficile, quindi, farcela – e farcela bene – partendo con solo quella matita, o dimostrare a tutti che la macchina da presa data in dotazione con il corredo battesimale sia meritata e non sottratta a chi la meriterebbe? La risposta, oltre ad essere una questione profondamente politica e, quindi, personale, può assumere senso solo se messa in relazione con una persona specifica. Nel caso di Sofia Coppola, possiamo essere contenti che in quella casa lì sia capitata proprio lei. Oltre ad aver dimostrato di saper sfruttare la sua fortuna, ha anche condiviso con noi le sue buone idee che – più o meno – sono casualmente distribuite nella popolazione. 

“Somewhere” di Sofia Coppola (Credits: IMDb)

Il suo primo film, Il giardino delle vergini suicide (1999), ha fatto un regalo dolce e morbido alle ragazze tormentate, quindi a tutte le ragazze. Ha registrato, con estrema franchezza e colori pastello, cosa significa crescere ed incontrare il sesso opposto. Quanto risulti faticoso, entusiasmante, innocuo, lurido e quanto, soprattutto, porti alla morte di una parte di se. Quella che lei rappresenta con i merletti e il rosa antico dei vestiti delle sorelle e che, in ognuna di noi, è la nostra infanzia e i nostri segreti sussurrati all’orecchio. E’ l’addio ai nostri corpi che servono solo a giocare, alle ginocchia sbucciate e ai colori. Bingo, Sofia.

Sofia Coppola
“Le vergini suicide” di Sofia Coppola (Credits: IMDb)

La sua pellicola successiva, Lost in Translation (di cui abbiamo fatto una pessima traduzione), fa un passo in più. Ci fa vedere sotto i nostri piedi che la strada dei vent’anni è chiara e gialla come quella del Mago di Oz, e per quante siano le curve e quanta la fatica, qualcuno l’ha percorsa prima di noi ed è arrivato dall’altro lato, infatti, ora può raccontarci che va bene incontrare qualcuno e non vederlo mai più. Che anche quella, comunque, è vita. Invece di credere che sia valido solo ciò che si dipana di fronte a noi con le tempistiche di una fiaba, Sofia ci suggerisce che sparire nel nulla a volte è l’unica delle soluzioni plausibili. Che gli amori sono anche fatti di un vortice relativo ad un tempo e un posto. Che si perdono, appunto, nel tempo che ci mettiamo a tradurli. Sofia, tu mi avevi avvisata e io non ti ho capita. Scusami.

Sofia Coppola
“Lost in translation” di Sofia Coppola (Credits: IMDb)

Poi, Marie Antoinette. Ottimo se si ha voglia di giocare a principesse, indossare merletto rosa, mangiare torte alte tre piani e pasticcini pieni di panna. Ottimo se si pensa che le ballerine siano, tutto sommato, belle scarpe rovinate dalla reputazione che ne facevano i nostri compagni delle medie. Ottimo, se vi va di mandare gli uomini a fare la guerra e poi prendervi la colpa. Ottimo, se avete voglia di litigare sull’accuratezza storica del film col primo che passa. A questo punto potrebbe anche essere collettivamente considerato come guadagnato il cognome di Sofia. Potremmo valutarla al pari del padre (del padrino). O del cugino, Tom Schwartzman. O dell’altro cugino, Nicolas Cage. Per non farci pensare più di qualche secondo, Sofia Coppola fa fare alla propria carriera un tre-e-sessanta. Arriva al Teatro Costanzi di Roma, prende La Traviata di Verdi e fa vestire Valentino a Violetta e Alfredo, a Giorgio, Flora, Annina e tutti gli altri, che essendo uomini e donne del 1850, il signor Valentino Garavani proprio non l’avevano mai incontrato.

Sofia Coppola
“Maria Antonietta” di Sofia Coppola (Credits: IMDb)

Poi vince il premio per miglior regia al Festival di Cannes, ed è la seconda donna a farlo nella storia. Poi, ancora e ancora, deve convincere tutti che meriti quei red carpet, quella poltrona in quel Dolby Theatre, quel cognome, quei soldi, quella colonna sonora, quegli attori, quelle candidature. Poi inizia a far venire il sospetto che se si fosse chiamata Paul non le sarebbe mai stato domandato con simile insistenza di confermare che sì, è effettivamente brava. Poi prende la storia di Priscilla Presley e decide di raccontarla senza temere i proseliti di Elvis e chi-ne-fa-le-veci. La racconta così bene che durante la prima al Festival del Cinema di Venezia viene applaudita per 7 minuti e Priscilla stessa, vicino a lei, scoppia a piangere. 

Sofia Coppola
“Priscilla” di Sofia Coppola (Credits: A24)

Sommariamente, gli uomini che recensiscono il film lo odiano, le donne che hanno fatto lo stesso ne amano ogni dettaglio. Per dirla come direbbe lei: «Evidentemente lei non è mai stato una ragazzina di tredici anni.»

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