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di marco

Parlare di Le Mépris rendendogli pienamente giustizia è una sfida tanto affascinante quanto ardua, a causa dell’importanza che assume all’interno della filmografia di Jean-Luc Godard e dell’impatto che ha avuto su tanti cineasti delle generazioni successive. Ho scelto di stilare quattro punti per me fondamentali per cercare di accedere a un’opera così densa e significativa, rifacendomi tanto alla corposa letteratura già presente quanto ad alcune considerazioni personali. Buona lettura a tutti! 

Brigitte Bardot ne “Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

sguardo e linguaggio

Le Mépris si apre con una dichiarazione di intenti piuttosto esplicita, paragonabile alle tautologie già viste in altre opere di Jean-Luc Godard[1]. Più che un vero e proprio incipit, le prime immagini del film nella versione originale si sostituiscono ai canonici titoli di testa: in uno studio di Cinecittà una macchina da presa, affiancata dai relativi operatori e da Giorgia Moll che sta prendendo appunti, si muove verso lo spettatore. La voce di Godard elenca i credits del film, partendo dal soggetto e dagli attori finendo con il comparto tecnico e i produttori. Al termine della digressione viene erroneamente[2] citato André Bazin, teorico considerato il padre dei Cahiers du Cinéma e, per estensione, della Nouvelle Vague: «‘Le cinéma’, disait André Bazin, ‘substitut à notre regard un monde qui s’accorde à nos désirs.’ Le Mépris est l’histoire de ce monde.»

“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Mentre viene pronunciata questa frase, l’obiettivo della macchina da presa si gira di 90° verso lo spettatore e si abbassa come se volesse vedere meglio il controcampo: questa scelta ricorda le celebri rotture della quarta parete effettuate dai due volti-simbolo del primo periodo godardiano, Jean-Paul Belmondo/Michel Poiccard in À bout de souffle Anna Karina/Angela in Une femme est une femme. Considerando la militanza nei suddetti Cahiers, non sorprende che Godard sia stato uno dei registi più attenti e interessati alle dinamiche meta-cinematografiche fin dagli esordi: non solo nei già menzionati À bout de souffle Une femme est une femme ma anche nei precedenti corti Charlotte et son Jules e soprattutto Charlotte et Véronique, due personaggi inventati nel periodo dei Cahiers assieme ad Éric Rohmer[3] L’autore si fa presto riconoscere grazie ad uno stile anticonvenzionale, caratterizzato da macchina a mano, montaggio molto rapido, cambi repentini di illuminazione e linguaggio gergale e libero. Proprio il rapporto con il linguaggio è stata la costante di tutta la produzione godardiana: per oltre sessant’anni il regista lo ha deriso, rivoluzionato e sviscerato al punto da allontanarsene (come in Adieu au langage[4]), apportando alla materia una visione unica ed un contributo impareggiabile.

“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Le prime opere di Godard differiscono tra loro per stili e temi toccati, ma hanno tutte in comune un sottofondo intriso di discussioni che l’autore compie su immagini e linguaggio cinematografico. Nei titoli di testa di Le Mépris tale digressione appare sotto forma di vero e proprio disclaimer indirizzato agli spettatori: il film tratterà sia di questo che dell’industria cinematografica e culturale, e non è certo un caso che ponga enfasi sulla parola “sguardo” all’interno del discorso di Bazin. 

“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Nell’incipit del film vero e proprio, nonché primissima scena della martoriata edizione italiana del film, vediamo Brigitte Bardot (che interpreta Camille) distesa sul letto, di spalle; Michel Piccoli (Paul Javal) è in t-shirt, sotto le coperte, accanto a lei. I due si coccolano mentre in sottofondo sentiamo per la prima volta lo splendido e iconico Thème de Camille di Georges Delerue: all’improvviso il colore dell’inquadratura passa da un rosso accesso ad un’illuminazione che evidenza il bianco delle lenzuola, il giallo della coperta e la carne di Camille, che intanto chiede a Paul cosa preferisca di lei. Nel mentre, la macchina da presa scivola verso sinistra e poi verso destra, indugiando sul suo corpo come se stesse guardando una statua. La luce si spegne e la scena si dipinge di blu scuro; Paul dichiara il suo amore nei confronti di Camille con la famosa frase: «Je t’aime totalement, tendrement, tragiquement».

“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Come già sostenuto da Luca Venzi[5], questa scena mette in risalto due elementi che saranno centrali nel film: il corpo e il colore. Studi e ricerche sulla color psychology[6] erano già partiti negli anni ’50, e le scelte cromatiche dell’incipit potrebbero essere interpretate alla luce di questo paradigma. In questo specifico caso, avrebbe senso designare il rosso come colore dell’eros e della passione, il bianco come quello della contemplazione e il blu scuro per l’ansia da separazione e la paura. È intuibile fin da subito che Le Mepris sia il più colorato tra i film di Godard usciti fino a quel momento, escludendo le scene di“Une femme est une femme che omaggiavano il musical di Minnelli e soprattutto Lubitsch: il budget da kolossal permette a Godard di utilizzare un technicolor che, coadiuvato dall’uso di lenti in Franscope (una forma di Cinemascope) per le riprese e dalla fotografia di Raoul Coutard, rende le immagini luminose e solari come mai prima. 

“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Nonostante l’ampio budget, una produzione internazionale poco indulgente e il tono diverso dai precedenti film, anche in questo non mancano le sgrammaticature tipiche del linguaggio godardiano. Al già menzionato repentino cambio di saturazione della scena iniziale si aggiungono saltuari riflessi e ombre degli operatori, visibili sulle macchine in scena o sugli specchi anche da spettatori meno attenti. Al solito, queste scelte ricalcano la dimensione meta-cinematografica del film, amplificata nella versione originale dalla colonna sonora di Georges Delerue. Il compositore, che già aveva collaborato con Truffaut in Tirez sur le pianisteJules et Jim e L’amour à vingt ans, propone per tutto il film delle variazioni sullo struggente pezzo iniziale, il già menzionato Thème di Camille: con questo commento musicale Godard vuole soprattutto destrutturare alcuni elementi cari ai blockbuster. Il film può essere inteso anche come una rivisitazione dei melò tipici di Hollywood: sebbene a Delerue fosse stata chiesta una colonna sonora classicheggiante e tipica di quel genere, il regista si discostò dalle norme prestabilite preferendo giocare con le aspettative degli spettatori. La ripetizione fino allo sfinimento di una partitura così enfatica, idiomatica e stereotipata aiuta a rompere l’illusione della narrazione e favorisce la consapevolezza, nello spettatore, di essere di fronte ad una messa in scena[7], quel Verfremdungseffekt o “straniamento” tanto caro a Godard quanto a uno dei suoi punti di riferimento, il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht.

Le Mepris di Jean-Luc Godard
“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Sebbene lo straniamento non sia meno presente rispetto ad altri lavori, la mise-en-scene appare più lineare del solito non solo per esigenze produttive ma anche e soprattutto per rendere giustizia alla frase con cui Godard stesso descrive il film: «C’est un film simple sur des choses compliquées».

Dopotutto, non è semplice raffigurare sullo schermo sia la fine di un innamoramento e di un matrimonio (già descritta nel romanzo di Moravia) che il rapporto tra cinema e realtà menzionato nella frase di Bazin a inizio film. Per evidenziare questo parallelismo, Godard si affida alle prolungate sequenze in appartamento a metà film, in cui lunghe carrellate e piani sequenza si alternano all’ormai tipico montaggio veloce ricco di flashback e flashforward. Secondo José Luis Guarner[8] la lite altro non è che il prolungamento di quella tra i due protagonisti di À bout de souffle e l’appartamento semivuoto e poco arredato concentra il nostro sguardo sui personaggi, amplificando in maniera crescente il senso di incomunicabilità e distanza tra i due protagonisti. L’utilizzo del formato widescreen permette di schiacciare la prospettiva (nonostante l’appartamento sia molto grande) e mostra Camille e Paul sempre separati come da uno split screen: per ottenere questo Godard sfrutta sia gli oggetti di scena che i colori dell’arredamento (divani rossi, pareti bianche) ed anche lo sguardo imperscrutabile della Bardot.

“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Ne è un esempio lo splendido e intenso piano sequenza in cui Paul interroga Camille riguardo all’amore che questa ha smesso di provare per lui. La macchina da presa, posizionata di lato rispetto al tavolo, segue incessantemente il discorso con un’inquadratura che rimbalza da un personaggio all’altro in maniera molto ansiogena: i coniugi sono separati da una lampada che si accende e spegne ad intermittenza, come se volesse mettere in luce ed in ombra elementi diversi della loro personalità.

“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Fa parte della mobilia di casa anche una misteriosa scultura in bronzo: le statue, spesso colorate nel film come dovevano essere in età classica, sono presenti in tutto il film ed hanno diversi scopi. In primis, rendono l’idea della classicità mediterranea a cui aspiravano sia Godard che Prokosh, il fittizio produttore del film interpretato da Jack Palance, tanto che Godard suggerì a Coutard di andare a visitare i bronzi di Riace per trarne ispirazione. Inoltre, sempre per il parallelismo tra realtà e cinema menzionato in precedenza, rappresentano un ideale di purezza e perfezione a cui dovrebbe ambire il cinema. 

Le Mepris di Jean-Luc Godard
“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Tuttavia, la lettura più interessante è stata fornita da Alain Bergala[9] e riguarda la possibilità che Brigitte Bardot, nel film, sia ella stessa una statua di carne. L’attrice, che aveva scritto a Godard entusiasta per la parte di Camille, per i Cahiers era stata una rivelazione perché dall’esordio in Et Dieu… créa la femme parlava e si muoveva in modo innovativo. La sua presenza, quindi, non poteva non mutare totalmente la concezione del film: Brigitte Bardot doveva essere presa in blocco, senza una componente psicologica, come se si trattasse di una scultura. Per questo motivo, quando durante la lite Paul dà un colpo alla testa della statua, è come se stesse colpendo direttamente Camille. Non stupisce che Godard riprenda il paragone di Alain Resnais fra il cinema e la scultura e affermi che si ha torto a paragonare sempre il cinema alla pittura, perché il cinema è “qualcosa di immobile, di solido, e al tempo stesso a qualcosa che sta passando e che è assolutamente inafferrabile”, che sarebbe una definizione quasi perfetta del Disprezzo.

Le Mepris di Jean-Luc Godard
“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

Camille non ha senso, ma è essa stessa senso. Il suo corpo non appartiene a nessuno poiché lei concede soltanto la propria immagine: vera e propria scultura mobile, è trattata come un inafferrabile oggetto d’arte moderna, che l’impudenza di Paul distruggerà nella penultima scena del film (ultima nella versione italiana). La sua morte, raffigurata con una dinamica simile ad alcune che saranno mostrate in Week End, è simile a una catarsi: tutte le persone che ha coinvolto nella sua vita hanno subito il suo potere, e la fine è quasi una liberazione. Solo la natura e il cinema, sembra suggerire Godard attraverso il suo Fritz Lang, possono sopravvivere e non saranno corrosi dalle vicende umane[10].

Le Mepris di Jean-Luc Godard
“Le Mepris” di Jean-Luc Godard (© IMDb)

[1] Ezra, E. (2014) Un Femme est infâme in A Companion to Jean-Luc Godard (pp. 60–70). John Wiley & Sons, Ltd. https://doi.org/10.1002/9781118586815.ch4

[2] Godard attribuirà in seguito la frase a Michel Mourlet, come evidenziato nel libro delle Histoire(s) du cinéma. Michel Mourlet, Sur un art ignoréla Mise en Scène comme langage, Ramsay Poche, 2008.

[3] Leigh, J (2012). The Cinema of Éric Rohmer: Irony, Imagination, and the Social World. Continuum.

[4] Jacobowitz, F., & Lippe, R. (2015). The man with the movie camera: Godard’s Adieu au langage. CineAction, (96), 24.

[5] Venzi, L. (2013). “Le Mépris,” il corpo e il colore. Studi Novecenteschi, 40(86), 299–311. (http://www.jstor.org/stable/43450155).

[6] Whitfield, T. W., & Whiltshire, T. J. (1990). Color psychology: A critical review. Genetic, Social, and General Psychology Monographs, 116(4), 385–411.

[7] Baumgartner, M. (2022). Jean-Luc Godard’s Le mépris: Conventional film music in an unconventional guise. In Soundtrack, The (Vol. 13, Issue 1, pp. 17–41). Intellect. (https://doi.org/10.1386/ts_00014_1)

[8] Guarner, Jose Luis. Le Mépris (in Ian Cameron, ed., The Films of Jean-Luc Godard, Studio Vista, London, 1967), p. 54.

[9] Bergala, Alain. Godard au travail. Les années 60, Cahiers du cinéma, Paris 2006.

[10] Ibidem.

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