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di pavel

È il primo febbraio dell’anno scorso, i televisori sono sintonizzati su Rai 1, dov’è trasmessa la 72esima edizione del Festival di Sanremo, La Rappresentante di Lista esordiscono con un pezzo che diventerà la hit del 2022 (la troveremo addirittura nella seconda stagione della serie evento The White Lotus, in onda questo scorso autunno), segnando quella cesura irreparabile tra il nuovo pop soft-impegnato e i classici tormentoni targati qualsiasi rapper/trapper/hip-popper in feat. con una Giusy Ferreri o una Baby K di turno (forse l’unico lascito positivo dell’industria musicale italiana degli ultimi dieci anni). La canzone in questione è ‘Ciao Ciao’, riporto qui di seguito alcune parole, a mio avviso simboliche:

La fine del mondo è 

una giostra perfetta 

Mi scoppia nel cuore 

la voglia di festa

“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Il testo, simpatico, fresco, divertente, incastonato in un ritornello ipnotico e decorato da una ballabilità tipica della dance anni Novanta, strizza l’occhio anche al male del nostro secolo: l’endemicità dell’indifferenza. Personalmente, non ho contezza di quante volte abbia cantato e ballato questa canzone, mosso soprattutto dal distacco ironico col quale la dolce voce della solista ti butta lì crisi generale, tendenze antisociali, congedi apocalittici e guerra mondiale. Chissà a cosa pensavano quando l’hanno scritta, questa canzone. Chissà, soprattutto, se sapevano che di lì a poco un nuovo (vecchio) conflitto avrebbe guadagnato grande rilevanza nella agenda dei media occidentali, riportando all’ordine del giorno parole che avevamo dimenticato, come ‘invasione’, ‘resistenza’ e ‘guerra nucleare’. Comunque, ci hanno visto lungo, La Rappresentante di Lista.

“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Dopotutto, però, l’apocalisse è un tropo che è stato largamente usato nella produzione letteraria, cinematografica, musicale e televisiva degli ultimi venti trent’anni, complice l’importanza data alle teorie cospirazioniste da letture geopolitiche, l’imprinting avuto con le nuove scoperte del cosmo in materia di buchi neri ed universi paralleli, l’attenzione portata sull’esaurimento delle energie non rinnovabili e tutta quella congerie di politiche simil-etiche arraffazzonate dai movimenti new-age impostisi negli ultimi decenni. Aggiungiamo una poca contezza filologica e una scarsa capacità critica delle evoluzioni e delle involuzioni apportate dalle politiche sociali ed economiche che, dagli anni Ottanta a questa parte, sono scese a compromessi col sempre più aggressivo e deforme Capitalismo morente, ed il gioco è fatto: scie chimiche, alieni, sperimentazioni di laboratorio, profezie Maya e microchip sono diventati i leitmotifs di tanta roba prodotta negli ultimi anni, nella più ampia cornice di una restituzione distillata dei valori e delle paure assorbite dall’Impero del Controllo, dall’Oligarchia della Sorveglianza, così per dirla con Foucault.

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Alcuni sono degni di nota, virando tra la critica e la decostruzione delle ipocrisie sulle quali i moderni stati occidentali mantengono l’ordine ed universi distopici o ucronici, dove ci riesce facile, vuoi l’epoca post- ideologica e l’influenza del digitale, empatizzare con ancelle ripetutamente stuprate o immaginarci un paradigma di realtà dove Hitler ha vinto la Seconda Guerra Mondiale e conquistato il mondo intero. La maggior parte delle opere di cui parlo nasce come letteraria, ed è stata scritta e pubblicata molti decenni prima della trasposizione audiovisiva: la letteratura è, ancora per ora, capace di anticipare le tendenze e i temi di cui è portatrice. Proprio l’anno scorso siamo stati deliziati con un polpettone hollywoodiano risoltosi in una lecture di DiCaprio sul cambiamento climatico e la minaccia dell’estinzione umana causata da un asteroide. Carino, dissacrante… Malriuscito però, quello sì. Infatti non menzionerò quell’altro film dove Halle Berry cerca di salvare il mondo da una Luna che sta per cadergli sopra: Roland Emmerich dovrebbe capire che il tempo dei disaster movies è finito da un pezzo. E perché, secondo voi?

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

White Noise, capolavoro della letteratura postmoderna statunitense firmato dalla voce più prolifica ed organica del panorama attuale, Don DeLillo, dà una chiave di lettura anche su questo. Il libro, pubblicato primamente nel 1985, narra della vita della classica famigliola suburbana in un imprecisato Midwest, minacciata da una catastrofe ambientale e dalla dipendenza da farmaci. E anche questo, mi sembra, abbia anticipato le riflessioni sul disastro di Chernobyl, avvenuto solo un anno dopo. Disdetta, disfatta, disastro: sono parole usate sicuramente più nel presente che nel passato. Ad un certo punto del libro, e anche del film, Murray, (interpretato dal fenomenale Don Cheadle), collega del protagonista, un Adam Driver nei panni del ‘maggior studioso di Hitler negli Usa’, esordisce: “Only catastrophe gets our attention”. Questa verità, da una parte, la riconduco all’eccesso iperbolico che ha caratterizzato l’evoluzione della pratica discorsiva, dove ognuno di noi estenua le parole alla ricerca di un rinnovato senso di fiducia da dare al linguaggio; dall’altra, siamo effettivamente anestetizzati da immagini di violenza e morte, tale che il disastro, a livello immaginifico, fa scattare in noi qualcosa di ironico, divertito, sardonico.

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Sardonico è proprio l’aggettivo che DeLillo utilizza di più nel descrivere le espressioni, le parole e i gesti dei personaggi che creano questo coro di anime postmoderne relegate in un microcosmo tardocapitalistico sul finire del secolo scorso, pulsanti nelle loro nevrosi, intelligenti nelle loro consapevolezze, e squisitamente pacchiane nei loro costumi e abitudini. Alla voce 1 del lemma ‘sardonico’ nel vocabolario on line Treccani troviamo “riso s., che esprime un sarcasmo amaro e maligno, una derisione sprezzante, offensiva e provocatoria”. L’intelligenza dell’autore spinge lo sguardo oltre il ghigno distaccato ed impenitente col quale l’umanità non si preoccupa di sé come collettività, producendo una riflessione sui sistemi entro i quali cresciamo e sviluppiamo coscienze e tendenze. Il libro è anche una critica all’eccessivo consumismo di cui siamo tutti quanti vittime e carnefici, senza se e senza ma.

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Il film, diretto da Noah Baumbach e approdato su Netflix questo 30 dicembre, inizia, contrariamente al libro, con una lezione che Murray tiene sulla tecnica degli effetti speciali utilizzati dal cinema americano nelle scene di incidenti automobilistici che paiono più uno spettacolo di Scuola di Polizia che non un effettivo car crash. Cronenberg ci aveva visto lungo, e tra gli anni Settanta e Novanta aveva prodotto una carrellata di opere altamente significative su come il progresso tecnologico, l’industria pesante e la convergenza culturale ci avessero reso più zombie invece che farci raggiungere il Nirvana. Se l’estetica esce dall’arte, e diventa un bene di consumo, nulla più resiste al processo di estetizzazione: nemmeno la violenza. Infatti, nell’attesa che White Noise diventasse un film, tanto ho sperato che il mio amato David si prendesse questa responsabilità. Alto o basso budget che sia, Cronenberg non ne ha mai sbagliata una, e riesce ad operare analogie tra umanità e tecnologia così potenti come nessun altro regista, ad ora, è riuscito a fare. Alla notizia dell’ingresso di Baumbach nella regia della trasposizione, sono trasalito: la mia parte più dolce e spassionata era in fibrillazione per questa notizia, essendo io cresciuto e pasciuto con quei coming-of-age un po’ drammatici un po’ comici, un po’ young un po’ adult, ambientati nella Grande e vibrante Mela del nostro High Brow figlio dell’ostentato accademico intellettuale newyorkese; la mia parte più stronza, forse anche quella meno sincera ma più onesta, era inorridita: dal regista di A Marriage Story, passare dalla restituzione post-bergmaniana della crisi della famiglia bianca a questo più ambizioso progetto è un grande onere. DeLillo non è né Nicholas Sparks e nemmeno Sally Rooney, caro Noah… Capisci cosa intendo?

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

White Noise è un esercizio di stile dove il proprio autore, attraverso la meccanica dei personaggi, cerca di rinnovare la fiducia al linguaggio comune: in questo senso può essere interpretato come un aggiornamento dell’Ulysses di Joyce dove la crisi generale funge da allenamento per lo spirito, in un’epoca dove ridiamo del dolore e la gioia non ci rasserena, dove siamo ciò che consumiamo e i risultati della ricerca accademica si risolvono in una sciorinata di solipsismi retorici atti a camuffare le nostre paure, dove Babette (qui interpretata da una trasognata ed enigmatica Greta Gerwig), la moglie del professore, non riesce più a distinguere le parole dagli oggetti. Nonostante la narrazione in prima persona, DeLillo non scade in uno sguardo intimista della realtà: donando superiorità intellettuale al protagonista, l’autore crea un mosaico pirandelliano di anime in combutta con sé stesse, tra rigetti discorsivi e metodi di coptazione sempre più insufficienti, incaricandosi di trasmettere un messaggio, di raccogliere una critica: come si fa a pretendere una reale comunicazione tra gli esseri umani, quando ormai si sono comprati pure il linguaggio?

“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Mi riferisco ora al titolo stesso, che rievoca il termine introdotto dal linguaggio informatico per descrivere un rumore che esiste e non esiste allo stesso tempo, dato dal conflitto tra la discontinuità della sua riproduzione e la costanza sulla sua ampiezza di frequenza (gli esperti del suono perdoneranno la mia semplificazione). Questo rumore bianco è catartico, pervasivo, entra e travolge tutti, nessuno escluso. L’anestetizzazione della coscienza è la prima, pericolosa conseguenza di una società che vizia, all’imperativo del benessere e della comodità, frutti anch’essi di una politica economica aggressiva, dove negli organi preposti all’organizzazione dello Stato di democratico è rimasta solo l’ottica liberista in cui decidono chi mandare avanti e chi lasciare indietro.

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Questo pensiero è espresso nel romanzo, non solo nell’ironia delle parole di Jack Gladney, un professore alquanto singolare, integerrimo docente di studi su Hitler che però non conosce il tedesco, che riesce a classificare le sottocategorie di mammiferi ma non si accorge che la moglie si droga da mesi; lo si trova anche nel riso sardonico a cui siamo mossi dallo stile della scrittura, dalla concatenazione di eventi e dalla composizione dei dialoghi, come a voler dare l’impressione di essere senza stare, o di stare senza essere: sotto questo profilo, la scrittura di DeLillo è molto affine alla regia di Baumbach. Nel film, però, complice anche l’impoverimento che determina il passaggio dall’immaginato al concreto, questo sardonismo si estende a tutto il paradigma entro cui la storia nasce, si sviluppa e muore. Adam Driver non riesce a comunicare la sensibilità che fa da controcanto al suo acume, come testimonia l’inchiostro sulla carta, e finisce per essere una macchietta del classico intellettualoide, in costante tensione tra l’altezza dei suoi pensieri e la bassezza dei suoi bisogni. Ciò che nel romanzo è in opposizione nel film converge, e la varietà di personaggi e di riflessioni che Baumbach vuole portare in appello, ovviamente in ossequio alla preziosità dell’elaborato di DeLillo, confonde ancora di più, e tutto diventa una carrellata magmatica di intuizioni che non riescono a tenere insieme il procedimento della narrazione.

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

La seconda scena che incontriamo nel film, dopo la masterclass di cinema, è il tipico establishing shot del cinema americano, sancito dalla letteratura di un Dos Passos che è indubbiamente feconda dell’apporto della diffusione dello schermo nel nostro ordinario, avvenuto ormai quasi un secolo fa. La televisione, lo schermo, che servono da specchio 2.0 nell’era tecnologica, sono elementi costanti nel romanzo, e questo è un aspetto che non viene trascurato da Baumbach, il quale riesce a dare una retrospettiva interessante al desiderio umano di riconoscerci, tra noi, questo bisogno di identificazione che non è però tendenza all’omologazione. È, tutto sommato, paura dell’oblio, di finire nel dimenticatoio, di morire. Altro tema cruciale, che alla fine lega tutta la narrazione del romanzo, è la paura della morte: se nella lettura riusciamo a percepirla come filo conduttore che muove le azioni e i pensieri dei personaggi, nell’adattamento questo sentimento viene relegato all’ultimo terzo del film, come slegato dal resto. Ed è un peccato, perché White Noise è una serigrafia dove ogni materiale, simbolico nella propria ermenutica, trova una sistemazione precisa all’interno della struttura logica che esso contribuisce a creare: l’adattamento di Baumbach è sintomo della totale assimilazione del portato semantico di questo capolavoro letterario, ma si scontra con una difficoltà a livello ricettivo delle materie esposte: sempre della serie ‘è difficile parlare di ciò che si ama’, e forse Noah non ci è riuscito al 100%.

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

Il rendering di Baumbach rimane un ottimo tentativo, deliziosamente postmoderno, di schiacciare più di 250 pagine di un capolavoro in un formato che restituisce forse il 30, 40% della scrittura di DeLillo. Non per questo dobbiamo gridare al fallimento: il regista non manca di applicare il suo filtro, spassionatamente leggero, volitivo e soprattutto sardonico, ad una letteratura che è di gran lunga più complessa e intricata di qualsiasi altro film che potrà mai produrre. E in epoca di rivisitazioni, riletture, revisionismi e riabilitazioni, perché non accettare questa versione upper-indie di un gran classico della letteratura statunitense? 

"White Noise" di Noah Baumbach
“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

La scrittura di DeLillo testimonia la stretta data dalla televisione, e questo lo si nota nella meticolosità delle descrizioni, dove il correlativo da oggettivo diventa soggettivo, mentre gli stati d’animo e le persone sono relegati allo status di una lampada di sale o di un poster di un film di Bruce Lee. Baumbach manca di rendere questa corposità della scrittura, ma riporta un discreto successo nella tecnica riproduttiva, dalla grana della pellicola, i suggestivi piani sequenza delle visite al supermercato, e il montaggio dei dialoghi. Proprio questi ultimi due elementi, sono di cruciale importanza, per comprendere sia il filtro impostato da Baumbach sia il messaggio che DeLillo voleva trasmettere con White Noise: il libro, una volta salvatasi dall’apocalisse e ritrovatasi nell’onestà purificata della comunicazione, si chiude con un’apologia della famiglia (incarnata dall’ipostasi della voce narrante del patriarca) sul supermercato, come analogia di un cosmo umano dove il proibizionismo che viene rintracciato è nel pensiero critico, non nei costumi, che invece esplodono in un carnevale di articoli ed immagini da guardare, acquistare.

“White Noise” di Noah Baumbach (Credits: Netflix)

La tragicità del portato semantico del romanzo è temperata dalla naïveté a cui siamo stati abituati dalla firma del regista, per cui chi vedrà questo film senza aver letto il romanzo, penserà che Baumbach abbia condensato un’estate di letture sulla liquidità di Bauman in un semplicismo manieristico. Ma non è così. La stitichezza è nella relazione, non nel trattamento. I dialoghi di De Lillo sono intelligenti, accattivanti: Baumbach salva quelli, a mio avviso, più cruciali, facendo una cernita di ciò che l’autore ha seminato nel libro, e nel montaggio accelera il botta e risposta, ingraziandoci i personaggi con la loro brillantezza di loquacità e spirito di osservazione, restituendoci una visio sardonica sui problemi di cui tratta.

La scena finale, infatti, nel film è una divertente e caotica coreografia musicale sulle note degli LCD Soundsystem che recitano: “I need a new body”, proprio a sigillare lo spostamento dell’asse dell’obsolescenza dai prodotti di consumo agli esseri umani, con panoramica finale sulle aisles che strabordano di esseri anestetizzati da automatismi ricorsivi. Se il libro, con il monologo finale, apre ad una riflessione malinconica, disincantata, su come l’umanità riservi la propria capacità di catarsi a ciò che è sbagliato, la resa cinematografica risolve la problematica con un balletto pop, e la famiglia Gladney, nel silenzio della crisi generale, ci saluta con amore. E dato che ci piace tanto pensare allo scrutinio finale, alla resa dei conti, eccovi il mio Armageddon: in linea con altrettanti prodotti che celano, tra gli interstizi della narrazione e le pieghe degli intrecci, una critica all’indifferenza societaria, White Noise di Baumbach è un risultato sicuramente migliore di un Don’t Look Up, ma indubbiamente peggiore di un Nope: il problema della sua ricezione tiepida, secondo me sta nel legame col formato, che risulta un po’ obsoleto rispetto ai contenuti. Ma non disperare, Noah, noi ti adoriamo lo stesso!

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